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Back In Time

Back In Time: BLIND MELON – Soup (1995)

Probabilmente l’aspetto migliore degli anni ’90, musically speaking, è che si ha l’impressione che ognuno potesse far quel cazzo gli passava per la testa senza che nessuno – o quasi – rompesse i coglioni a riguardo. Anzi, più andavi fuori strada rispetto a ciò che si aspettava la gente da te e più gli orizzonti si espandevano a perdita d’occhio in un mondo affamato in attesa della next big thing e bisognoso del suo oscuro contraltare underground. Un underground però privato della sua natura rumorosa benché ridotta ad una sottospecie di infiltrazione. Le major erano a caccia di tutto ciò e il sottosuolo divenne ben presto una miniera – anche se troppo spesso anche una discarica – a cielo aperto.

In questo folle palcoscenico creature come i Blind Melon potevano solo diventare leggende a loro insaputa. Col loro fare carnevalesco e multicolore hanno attraversato tutt’altro che indenni il decennio dell’esplorazione emotiva prendendo però una strada poco battuta, evitando il grunge e ignorando a modo loro il nascente crossover, delle chitarre assassine, dei ritmi a pressa idraulica e del downtempo imperante. Se però definissimo la creatura capitanata da Shannon Hoon un circo senza anima commetteremmo il peggiore degli errori. La capacità del compianto cantante di spiattellare il proprio malanimo in faccia all’ascoltatore sorretto da un’intelaiatura musicale che di oscuro non aveva niente è quella marcia in più che un po’ tutti s’aspettavano. La prima volta che ho ascoltato “Soup” – album con il quale li ho scoperti e a dire il vero non ricordo nemmeno come ci sono arrivato – mi sono reso conto di essermi ritrovato dinnanzi a qualcosa di obliquo all’obliquità a cui ero abituato fino a quel momento. Nemmeno a dirlo ci sono arrivato a bocce ferme e con il corpo di Hoon già six feet under, ciònondimeno sono rimasto folgorato dalla capacità del combo di portarsi appresso il disagio dipingendolo a tinte allegre. Apparenza e sostanza che si fondono in un’unica soluzione di continuità

Ad oggi continuo inevitabilmente a vedere i Blind Melon come una sorta di Happy Mondays a stelle e strisce, e vai a capire il perché. Musicalmente qualche accostamento tirato per i capelli potremmo trovarlo, per tutto il resto nada. Al di là delle mie personali interpretazioni c’è tanto in questo album di quanto non si possa trovare in alcun altro suo coetaneo. Le influenze della crescente scena alternativa si spingono oltre alle barriere del tempo e vanno a ripescare negli ormai mistificati anni ’60, in quel mondo psichedelico aberrato dai più oscurantisti e osannato dai nuovi hippies in circolazione. Corsi e ricorsi storici, si direbbe in altra sede. Tutto modo è chiaro che la lezione non sia dissimile da quella imparata, che so, dai Minutemen nel corso degli anni ’80: andare in direzione opposta fregandosene di tutto ciò che sta attorno ad un genere od un filone. Watt e Boon nutrivano questo amore mai nascosto per tutto il rock sixties, il country e la psichedelia tout court, tutti generi bistrattati dall’imperante scena hc dell’epoca, e lo stesso percorso sembrano aver battuto i Blind Melon. Mentre tutti gli altri sì nutrivano amori simili ma li nascondevano dietro palate di esacerbante distorsione, i ragazzi in questione palesavano la cosa senza alcun timore. Verosimilmente era Chris Cornell a non nascondere affatto il suo amor vocale per r’n’b e i dieci anni in questione, e Hoon era un Cornell trattato con il metodo della solarizzazione. Voci di cristallo in un mondo di piombo.

Un essere flebile reso ancor più pericoloso dall’uso di droghe in continuità con l’idea di esplorazione psicotropa cara alla Generazione della Summer of Love che negli anni ’90 ha visto un ritorno in auge, come ha spesso avuto modo di ribadire lo stesso cantante: “Sento spesso parlare di questo ‘dì di no alla droga’. Ma vaffanculo! Grazie alle droghe sono in grado di rimuovere me stesso da me stesso, di capire dove risiedono molti dei miei problemi. È l’LSD a darmi questa possibilità e di osservare e capire. Scegliere se essere costruttivo o distruttivo è scelta solo dell’individuo”. Purtroppo col senno di poi ognuno di noi sa quale dei due tipi di individuo è stato Hoon, morto nel 1995 a causa di un’overdose, a pochi mesi dall’uscita di “Soup”, tra l’altro e a soli 28 anni. Ma d’altronde come ha detto in un’intervista il chitarrista Christopher Thorn: “Shannon era un ragazzo tormentato. Aveva un cuore gigante ma era in mezzo ad un sacco di situazioni folli”.

E nelle liriche del secondo album tutto questo emerge e si fa strada in mezzo ad un suono inusitato, illusoriamente nuovo e fresco come non mai. Unico, per dirla tutta. Se l’omonimo disco di debutto è stato registrato con tutti i crismi del caso in uno studio a dir poco perfetto, “Soup” ha tutt’altra genesi ai Kingsway Studios di New Orleans con il mago del mix Andy Wallace: “Lo studio era nel bel mezzo del quartiere francese,” – chiosa Hoon – “E c’era tutto questo scalpitare di zoccoli di cavallo. Ti svegliavi alle 8 del mattino e ti chiedevi se il Cavaliere senza testa stesse venendo a prenderti!”. Di quel che chiunque gli stesse attorno si aspettasse della band a loro non interessava, secondo loro era irrilevante il modo in cui veniva fatto suonare qualcosa oppure l’idea di mantenere una data immagine: stava tutto nella “telepatia” che veniva a crearsi tra i membri del gruppo. Ad Hoon le cose predefinite ed organizzate non piacevano e questo modo di vedere le cose si riverbera nell’incredibile libertà stilistica dei BM.

Così prendono forma brani come Galaxie, col suo andamento allegro e spensierato, come fosse una gita in famiglia e che anela proprio a questo mentre si maledice per la propria dipendenza da eroina, senza droppare le chitarre, senza gridare, lo canta: “And you’re leaving me / Yeah, you’re leaving me with this hated identity / But I keep on a-coming here and standing in this state / Oh, and I’m never really sure if you’ll take what I say the right way / But I’m not appalled or afraid / Verbal pocket play / Is as discreet as I can muster up to be / Because the Cadillac that’s sitting in the back it isn’t me / Oh, no no, it isn’t me / I’m more home in my galaxie”. È chiaro come questo essere combattuto ha giocato un ruolo fondamentale sul percorso del cantante dell’Indiana. Nessuna paura, moltissimi dubbi, nessuna traccia di una soluzione, forse nemmeno ricercata.

Molte band al tempo dedicavano le proprie liriche e canzoni oscure e pesanti ai serial killer e i BM non volevano essere da meno e così ecco Skinned, un pezzo che l’elettricità non la vede nemmeno da lontana, allegra e spensierata ballad country cantata dal punto di vista di Ed Gein, il killer che indossava la pelle delle sue vittime, tra kazoo e banjo e risate rimaste impresse sul nastro. Shannon spiega: “Era orribile ciò che faceva, ma credo che ci siano sempre due lati di tutto. Trovare l’humour in queste cose ti manda avanti.

Uno dei (tanti) punti di forza del disco sta nelle ritmiche cristalline ad opera di Glenn Graham che sferza il tutto anziché con la robustezza propria di certi suoi colleghi inserendo spinning jazz e saltellanti costruzioni funk difatti: “Tutta la faccenda del jazz arriva da Glenn.” – ammette Hoon – “Lui non è un batterista rock’n’roll. A Lui piace gente come Max Roach. […] Quando si è unito a noi ha portato un nuovo ingrediente da adottare.” E questo è parecchio evidente in brani come DumptruckToe Across The World e ancor di più nelle sensazioni lounge di Car Seat (God’s Presents), quest’ultima impreziosita da suoni mediorientali e da una linea vocale allucinante.

Tutto l’album è sferzato da questa varietà e dai salti di continuum tra un genere e l’altro rendendo il risultato finale qualcosa di unico e pregiato. Come se i R.E.M. un bel giorno si fossero svegliati dopo aver ascoltato tutta la notte Butthole Surfers e Soundgarden in versione country-funk-rock dopo essersi presi una vagonata di acidi (ascoltate 2 X 4, New Life e Vernon e ditemi se non è vero).

Soup” rimane un gioiello di quei lontani anni ’90 tremendamente sottovalutato e dimenticato, il sintomo di un decennio strambo e sgangherato che aveva in sé chiavi di lettura tutto tranne che lineari e i Blind Melon se ne fecero (black) “umoristici” portavoce, seppur meno dei Mr. Bungle, ma questa è un’altra storia. E non c’è niente di peggio di lasciare qualcosa del genere al solo ricordo, bisogna viverlo e suonarlo quanto più forte possibile. Forte e in memoria di qualcosa di inesprimibile.

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