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Back In Time

“Turn On The Bright Lights”, il gioiello oscuro e romantico degli Interpol

La rock revolution che agli inizi degli anni 2000 riportò in auge il vessillo più puro del rock rispondeva in realtà ad un bisogno preciso, ossia quello di ricevere rassicurazioni da un sistema che sembrava essere in procinto di implodere sotto i colpi gelidi dell’elettronica, ormai tendenza generalizzata e sospinta da fuoriclasse d’eccezioni, come “Kid A” e “Amnesiac”. Ne risultò una fitta schiera di band che si aggrappava con le unghie alle sonorità rincuoranti e familiari del garage e di certa new-wave, mettendo in scena, con fortune più o meno intense e durature, una rivoluzione tanto orgogliosa quanto effimera. Qualche nome? Franz Ferdinand, Libertines, Arctic Monkeys, Kasabian, The Black Keys, The Hives, The Strokes e via dicendo.

È proprio nella New York degli Strokes e della loro frivola piera miliare “Is This It?” che gli Interpol – che con Casablancas e soci spartiscono nient’altro che la residenza – danno forma ed anima a “Turn On The Bright Lights”, forse l’unica prova che, in questa schiera di lavori indubbiamente ottimi ma dallo spessore e dalle prospettive ridotte, risulta ancora oggi possedere un significato forte e memorabile, seppur difficile da cogliere a pieno oggi, a quasi 20 anni di distanza dalla sua pubblicazione.

È una città in ginocchio quella cantata dagli Interpol, attonita e atterrita al cospetto delle ceneri del World Trade Center, alla ricerca di una speranza, anche della più oscura, per ricominciare da zero. La voce baritonale e profonda di Paul Banks e un’atmosfera decadente, un incrocio tra la fazione più drammatica della new-wave e l’incisività dolorosa del post-punk, sono il soffio amaro di un vento inossidabile su una città che si è svegliata avvolta in un manto di dolore.

Tanti e scontati sono i riferimenti – dai Chameleons ai Joy Division, dai Bauhaus ai Television, passando addirittura per mostri alternative quali Afghan Whigs, Pixies e Sonic Youth – ma sarebbe delittuoso ridurre il tutto ad un puro esercizio di maniera. Tutto in “Turn On The Bright Lights” è messo in scena con una classe ed un’intensità fuori dagli schemi, a partire dalle trame chitarristiche di Daniel Kessler, sempre perfette nel dettare tempi e umori spaziando senza intoppi dal garage, al post-punk, dallo shoegaze alla psichedelia, e da una sezione ritmica che con il suo incedere tonante e cavernoso disegna continui giochi d’ombre. 

Nelle sue undici tracce, ognuna un episodio di un più ampio e passionale racconto del buio della decadenza metropolitana, “Turn On The Bright Lights” scava a fondo nell’anima accarezzando (Untitled, NYC, Leif Erikson), scorticando (PDA, Obstacle 1, Say Hello To The Angels), divorando con pazienza i resti infermi di ogni certezza (Hands Away, Stella Was A Diver And She Was Always Down, Obstacle 2), esorcizzando paure e timori fino a renderli parte innegabile ed irrinunciabile dell’esistenza stessa (Roland, The New).

Non c’è una vera e propria hit nella tracklist, ma non è un difetto in un viaggio tra detriti cangianti condotto con sontuosa sicurezza in ogni istante. “Turn On The Bright Lights” è un gioiello dark e romantico dal carattere estremamente emozionale e all’epoca sembrava davvero aver illuminato una notte infinita con una luce forte e inestinguibile che oggi non si è ancora assopita nonostante ogni afflato di quella rock revolution si sia ben presto trasformato in noiosa routine.

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