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Manes – Slow Motion Death Sequence

2018 - Debemur Morti Productions
trip hop / art rock

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Tracklist

1. Endetidstegn
2. Scion
3. Chemical Heritage
4. Therapism
5. Last Resort
6. Poison Enough For Everyone
7. Building The Ship Of Theseus
8. Night Vision
9. Ater


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Sono passati ben 15 anni da quando “Vilosophe” sferzò l’aria del metal estremo portando a galla qualcosa di nuovo e inesprimibile e 4 dal cubismo pop dell’ultimo “Be All End All” ma sembra che la corsa dei Manes non sia ancora al suo termine. Il combo norvegese, assieme ad Ulver, Solefald, Arcturus ed In The Woods… fa parte di quella progenie blackster decisa ad allontanarsi sempre più dalle proprie origini per dar adito ad un respiro di origine aliena. Pioneri ed argonauti di un ignota terra calda in lande gelide.

Con “Slow Motion Death Sequence” la band appone alla propria architettura un altro mattone, forse quello definitivo, per completare una costruzione di estremo splendore capace di commuovere anche l’animo più imperituro ed invitto. Senza nulla togliere a “The Assassination Of Julius Caesar” di Garm e soci questo lavoro ha dell’incredibile e a quel disco dà la paga, con la sostanziale differenza che i Lupi fanno hype e dunque attorno a loro ci si è dati un gran da fare, mentre i Manes rimangono sottotraccia – quantomeno dalle nostre parti. E questo è un gran delitto, a mio modesto parere.

La sfiancante apertura e bellezza di questo album è un tutt’uno con un universo trip-hop che muove i primi passi a Bristol negli anni ’90 e che ha allungato le propaggini al di là di ogni barriera musicale, infestando anche i più impensabili. C’è tanto anche di quel sintomo hip hop e di una cultura black (non metal, attenzione) che arrivano da oltreoceano e vanno ad innestare le proprie componenti in un art rock fatto di muscoli di cemento armato e tendini e nervi d’acciaio che donano al tutto un mordente senza eguali. A dominare sono le melodie vocali – impreziosite dall’apporto di Ana Carolina Ojeda e Anna Murphy – e le escrescenze elettro che si inerpicano su chitarre rilucenti sostenute da ritmiche lisce quando serve e spinosamente metalliche grazie ad un sapiente uso della doppia cassa, senza esagerare, quasi di nascosto.

Ci sono brani immensi come Last Resort che si avvia in baluginii pop-rock anni ’90 per poi scoppiare in galassie epiche, con le voci ad intrecciarsi in un turbine androgino senza confini; elettro-bisturi massiveattackiani in chiave ultra rock (Scion, Endetidstegn); equilibri post-electro glitch che sfumano in drum’n’bass mistificata da chitarre gargantuesche (Chemical Heritage); inquietanti sintetizzazioni delle atmosfere norwegian black virate in mostruose prog-delicatessen che si avvicinano terribilmente ad un certo crossover anni ’90 (Poison Enough For Everyone, Therapism).

Varrebbe la pena scoprirli questi Manes, oppure continuare ad amarli per ciò che sono: architetti di una deliziosa commistione tra pop ed universo elettrico, trip nell’hop e stigmi rocciosi, di rocce che arrivano da Plutone, fredde ed intagliate nella materia di un universo in espansione. Perché “Slow Motion Death Sequence” riesce a suonar meglio di “Vilosophe”, e se sapete ciò di cui sto parlando vi renderete conto che è cosa buona e giusta immergersi.

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