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Back In Time

Back In Time: DANZIG – Danzig (1988)

Impossibile non voler bene a un personaggio come Glenn Danzig. A 63 anni suonati il coattissimo ex frontman di Misfits e Samhain continua a sfoggiare imperterrito una folta chioma nera corvina e il fisico tipico del culturista in pensione: i pettorali cadenti messi in bella mostra nel 2015 sulla copertina di “Skeletons” sono lì per ricordarci quanto possa essere impietoso lo scorrere del tempo. Una sfilza di lavori poco memorabili (l’ultimo, “Black Laden Crown”, non è malaccio ma suona come una demo registrata con i piedi) e qualche bravata di troppo sul palco e non solo (leggendaria la rissa persa malamente contro Danny Marianino dei North Side Kings nel backstage di un concerto nel 2004) hanno trasformato il principe delle tenebre nel re dei meme.

La rete non perdona gli svarioni e il povero Glenn, dopo aver trascorso decenni a curare in ogni minimo dettaglio la sua fin troppo seria immagine da figlio dannato di Elvis Presley cresciuto a film di serie z e giornalini pulp, è diventato protagonista di spassosi fotomontaggi che, giocando con l’assonanza dei termini Danzig e Dancing, ce lo presentano nelle improbabili vesti di ballerino di salsa e merengue in una puntata di “Ballando con le stelle” (“Danzig with the stars”) o come indegno sostituto di Patrick Swayze in “Dirty Danzig”.

E il nerboruto cantante del New Jersey sembra davvero godersi questa ritrovata fama da simpatico fenomeno dell’internet: fino a qualche anno fa nessuno avrebbe mai immaginato possibile vederlo prendersi in giro da solo con tanta leggerezza come fatto nelle comparsate televisive in “Portlandia” e “Aqua Teen Hunger Force”.

Eppure ci fu un’epoca in cui al semplice sentir pronunciare la parola Danzig stuoli di timorati di Dio correvano a stringere il rosario tra le mani. Un’epoca lontana e oscura che ci regalò quattro meravigliosi album di hard rock sanguigno e demoniaco: “Danzig” (1988), “Danzig II: Lucifuge” (1990), “Danzig III: How The Gods Kill” (1992) e “Danzig 4” (1994) magari non brilleranno di fantasia nei titoli, ma per tutto il resto sono mirabolanti esempi del talento e della qualità che contraddistinguevano la formazione originale dei Danzig. Perché il lato compositivo sarà anche sempre stato appannaggio esclusivo dell’ex Misfits, ma l’importanza del lavoro svolto da John Christ (chitarra), Eerie Von (basso) e Chuck Biscuits (batteria) è innegabile.

Insieme a loro Glenn Danzig riuscì a realizzare un piccolo miracolo: unire l’heavy metal più cattivo, diretto e senza fronzoli alla lezione dei grandi dinosauri del blues e del rock and roll degli albori. Un sentiero già percorso in buona parte al fianco dei Misfits a dir la verità, anche se in salsa  hardcore: alcuni brani contenuti in “Static Age” o “Walk Among Us” potrebbero benissimo essere usciti dalla penna di un Roy Orbison con spille da balia infilate nelle guance. Fu però solo con i Danzig che il mix di generi, influenze ed età diverse arrivò al risultato auspicato dal suo muscoloso autore.

In questo senso l’album del 1988, pur non essendo la prova migliore realizzata dal quartetto, è sicuramente quella più rappresentativa. Con Rick Rubin in cabina di regia, Glenn Danzig si scrollò definitivamente di dosso la pelle punk di inizio carriera per convertirsi in uno sciamano del blues che, in sella a una Harley-Davidson nera fiammante, attraversa le strade polverose e deserte di una provincia americana popolata da demoni e peccatori.

La partenza di questo viaggio nel cuore oscuro dell’hard rock a stelle e strisce è affidata alla chitarra di John Christ: il riff di Twist Of Cain è sinistro al punto giusto da imprimere un briciolo di sana malvagità a tutto il brano. Che si trovi a brancolare nella “notte vuota” di Not Of This World o ad arrostire tra le fiamme infernali di Soul On Fire, il buon Glenn canta sempre con la classe di un Jim Morrison in versione zombie; ma è in She Rides che probabilmente ci dona una delle sue interpretazioni più intense e belle di sempre. Una via di mezzo tra un lupo mannaro e un romantico crooner che si esibisce in uno strip club in cui le ragazze ballano la pole dance avvinghiandosi attorno a enormi croci capovolte.

È una bestia, un uomo o è proprio come noi, che vaghiamo sulla terra come “orde di facce dagli occhi spenti”? Questa è la domanda che gli frulla nella testa nella granitica Am I Demon. Il Centro Culturale San Giorgio, una simpatica associazione cattolica che da anni difende la Chiesa dagli attacchi dei miscredenti del rock, sembra volergli dare una risposta alquanto perentoria quando descrive con le seguenti parole il video originale (messo al bando da MTV e irreperibile su YouTube) di Mother, l’unica vera e propria hit mai partorita dai Danzig: Vestito in nero, Glenn Danzig sta al centro di un Pentacolo. Ammazza un pollo a mani nude spaccandolo a metà, e lascia che il sangue possa colare sul corpo seminudo di una donna che giace su di un altare satanico. Una strega al suo fianco traccia una croce rovesciata con il sangue sul ventre della donna e poi si lecca le dita insanguinate.

Nulla di troppo lontano dalla realtà – naturalmente nessun pollo fu ferito né tantomeno ucciso nelle riprese – ma quanta obiettività possiamo aspettarci da personaggi che nella lista dei più pericolosi corruttori di anime innocenti infilano anche i “cattivissimi” Def Leppard e Paul McCartney? Se avessero ascoltato le urla disumane che fanno da introduzione alla gelida Possession, ultimo rimasuglio della produzione dei Samhain nel quale si avverte persino qualche vaga eco post-punk, probabilmente i ragazzi del Centro Culturale San Giorgio non avrebbero esitato a contattare un esorcista per liberare i Danzig dai loro tormenti interiori, qui tra l’altro condivisi con un giovane James Hetfield (Metallica) ai cori.

Ma l’inferno di Glenn Danzig non è un luogo spaventoso come lo dipinge questa combriccola di fanatici religiosi. Somiglia di più al set di un film di Russ Meyer, pieno di auto sportive e procaci pin-up che fanno l’occhiolino all’ascoltatore, mentre sul palco la band ammalia il pubblico con la sulfurea End Of Time, immerge nelle torbide acque del fiume Stige The Hunter di Albert King e chiude lo spettacolo in bellezza con una Evil Thing che, con quel suo incalzante ritmo bonhamiano, mostra a tutti una via satanica e iper-caciarona al sound testosteronico tipico degli Aerosmith d’antan.

Un tripudio di blasfemia, machismo, spacconeria e cattivo gusto? Certo, ma anche – e soprattutto – un grandissimo disco. Con buona pace degli amici del Centro Culturale San Giorgio.

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