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Youth is gone, crew is dead: una retrospettiva sui COMRADES

Photo credit: INTOTHEVOIDVISUALS (Marco Pasini)

Era sera, c’era ancora afa nonostante fossero appena gli albori di giugno. Sembrava la stessa afa che aveva invaso la città durante tutto il giorno. Io ero in bicicletta, il che non era molto comodo per l’attività che avremmo dovuto svolgere, se non per scappare in caso di necessità o avvistamenti. Era l’estate del 2000 ed ero appena stato bocciato, in quarta liceo.

“Oh ciao Andrea, sei ancora in città? C’è da attacchinare per gli Abstain, gli americani. Vengono domenica non questa, l’altra.” Certo che ero ancora in città, era appena metà luglio e non sarei proprio partito, quell’estate. Al bar dove ci trovavamo ormai si parlava solo di cose da fare e incombenze. I tavoli erano sempre caldi nonostante l’aria condizionata a mille, le pareti sporche, i servizi igienici impraticabili sin dai primi minuti di apertura. I volantini erano grigi e rossi, il tour europeo era stato organizzato da Hellnation, alla quale ci eravamo già rivolti più e più volte, tutti insieme, per ordini di dischi e magliette che Milano non riusciva a darci, e dalla SOA Records, etichetta del cantante dei Comrades Paolo Petralia. Sì, perché il gruppo con cui gli Abstain stavano per condividere i palchi dalle nostre parti erano i Comrades. “Guttural Spaghetti HC Grind” era la descrizione a loro appiccicata.

In quello stesso bar, qualche mese prima, era un sabato, Nicolò mi diede una cassetta il cui lato A portava “GB” dei Gorilla Biscuits e il lato B il solito zibaldone di gruppi, nel quale però spiccava il brevissimo split Los Vaticanos / Comrades, uscito proprio quell’anno. Nicolò non mi seppe spiegare molto bene di cosa si trattasse, di che genere si stesse parlando. Quasi di sicuro ero io che non capivo. Lui ha iniziato ad ascoltare grind e crust prima di me ed era già abituato alle linee di questa sezione musicale di flora da sottobosco, mentre io avevo solo chiesto un disco dei Gorilla Biscuits. Che non mi piacque per nulla. Consumai subito lato B, invece. I sette minuti scarsi dei capitolini balzarono all’istante in testa agli ascolti estivi di quel periodo.

Cercammo di invitare quanta più gente possibile al concerto e nonostante non esistessero ancora i cosiddetti “social” per promuovere eventi di questo tipo, alcune risposte arrivarono. Il tour degli Abstain in Europa era cosa risaputa, e le voci sul loro conto si erano propagate velocemente tra di noi, novaresi, e i nostri omologhi che vivevano nelle città che li avrebbero visti suonare quell’estate. “Suonano in due, sono solo in due!” era il concetto che andava per la maggiore, ma io più che agli americani, ero pazzamente ansioso di vedere dal vivo i Comrades. Mi chiedevo se si dovessero cantare i pezzi o fare i cori durante le loro esibizioni, ero un curioso naïf fatto e finito e quello sarebbe stato il primo concerto grind al quale avrei partecipato con tutto me stesso, per la prima volta. Ne avevo visti altri, ok, ma non ne ero mai stato così coinvolto come per i romani. Che parlavano di guardare i film con Van Damme e che oggettivizzarono per sempre il termine “mosh” associandolo ad una personalità vicina a loro, Mustapha, riproponendone le gesta qua e là nei loro dischi. “È ancora mosh, Mustapha?” la gente si chiedeva. Quel concerto ci toccò di domenica. Una domenica d’estate che altrimenti non sapresti come passare, dal lungo pomeriggio e dagli accorati esiti.

I Comrades hanno rappresentato, per un’enorme parte del mio percorso di conoscenza ma soprattutto di partecipazione musicale, l’estremo più accessibile della coerenza. Potevo ascoltare l’hardcore new school, il grindcore americano o i gruppi Deep Six, ma loro, i Comrades, erano quelli che avevano dato un significato alla parola “mosh”, trasportando finalmente un modo di concepire la musica punk rischiando di finire a parlare del concetto di violenza. Li vedevo sulle toppe dei punkabbestia e degli autonomi, nelle distribuzioni più polverose ed estreme ai concerti, li ascoltavano i punx che pensavano che il mio hardcore new school, o il mio punk rock dei Propaghandi fosse troppo commerciale, fosse un genere da poser. Avevano splittato con gli Eversor, che all’epoca non erano propriamente un gruppo seguito dallo stesso pubblico che avrebbe potuto seguire i Comrades o la scena grind. Poser è una loro canzone e vederla scritta lì, come primo pezzo dello split con gli Agathocles “Tear Off The Mask” mi fece sentire parte di un branco, di non essere più come tanti altri. Gli Agathocles erano un altro gruppo da toppa, un altro gruppo da split e un altro gruppo, come loro, da registrare tanto e provare poco. “Le prove sono per i principianti” disse una volta Paolo Petralia sempre a Novara, sul palco con i Colonna Infame.

Photo credit: INTOTHEVOIDVISUALS (Marco Pasini)

Decisi di passare qualche giorno da solo in montagna, era il periodo di Pasqua del 2003. Qualche settimana prima arrivò la notizia che si sarebbe organizzato il Rovina Hardcore di quell’anno anche a casa nostra, a Novara. Il fast fest era l’evento hardcore do it yourself più famoso e seguito dell’epoca, e grazie ad Agipunk, SOA e Angry Records era sempre stato in grado di catalizzare al suo interno un’ottima varietà di pubblico. Si andava dal crust al thrash, dal powerviolence al grind e i gruppi che vi partecipavano erano sempre famosi, sempre attesissimi. Quell’anno gli headliner erano i Severed Head of State, che già conoscevo grazie alla mia passione sfegatata per i gruppi Ebullition. Poi c’erano i brasiliani Olho de Gato, gli italiani Amico di Martucci, Contrasto (che avrei prodotto qualche anno dopo con la mia etichetta ), Nervi e Strength Approach, i seguitissimi crusters belgi Visions of War e loro, i Comrades dalla città del biondo Tevere e dei Colle der Fomento. Le due date erano smezzate lungo il weekend pasquale tra Modena e noi. Eravamo al centro della scena insomma, granitici nella nostra provincia.

Volevo comunque passare del tempo lontano da Novara, ne volevo approfittare avendo qualche giorno libero tra università e lavoro, così optai per il viaggio in treno. O per lo meno, avrei viaggiato in treno fino a Domodossola e successivamente avrei preso il pullman che percorreva l’intera valle. Un paio di libri, della musica nuova. Non avevo voglia di chiedere a qualche conoscente o amico di tirar fuori la macchina e farsi venti chilometri di tornanti per recuperarmi in stazione a Domodossola. Il piano sarebbe stato ripartire la mattina del 20 per poter essere fresco e scattante in città la sera del concerto. Presi il treno la mattina del 18 aprile dalla stazione di Novara, e iniziò a nevicare poco prima di raggiungere il Lago Maggiore. Eravamo oltre la metà di aprile, era primavera, pensavo che non sarebbe durata molto e che non sarebbe rimasta a terra per tanto tempo. A Vogogna, appena dopo le stazioni lacustri, la situazione divenne tragica: il treno accumulò un’ora di ritardo e mi vidi costretto a chiamare un mio amico per farmi recuperare nella tetra stazione di Domodossola, ultima fermata prima della frontiera svizzera ormai da più di un secolo di Galleria del Sempione. Sembrava un altro mondo, rispetto a quello che avevo lasciato a Novara. Durante il tragitto dal centro di Domodossola a casa nostra, parlai con gli amici che mi avevano recuperato del meteo praticamente per tutto il tempo del viaggio. Non ero intimorito per le condizioni dei giorni che mi aspettavano, non eravamo in pieno inverno, ero vestito solo con una maglietta, dei jeans e la felpa dei Good Riddance: dal giorno dopo la situazione sarebbe migliorata, speravo. Invece nevicò ininterrottamente per due giorni, la strada per il fondovalle rimase chiusa dalla sera del venerdì delle Palme e non potei raggiungere la stazione di Domodossola per essere presente al Rovina Hardcore Fest che si teneva nel mio stesso quartiere, a trecento metri da casa.

Gli altri, quelli che erano rimasti a Novara, iniziarono a raccontarmi del concerto la prima volta che li incontrai, il martedì appena dopo Pasquetta. Avevano comprato magliette e toppe, erano tornati a casa alle sei di mattina perchè la gente aveva iniziato ad andarsene tardissimo, si erano divertiti a un concerto hardcore come non se ne vedevano da anni. E che io avevo perso per colpa di una nevicata straordinaria che aveva bloccato qualsiasi accesso stradale alle attività sociali, relegandomi a non studiare e a non lavorare per tre giorni interi. Di domenica, ancora.

Il 2009 fu l’anno della reunion dei Concrete e l’anno dello split dei Comrades con i Death Before Work!. I ragazzi di Freego! organizzarono due giorni di concerti in un posto a Milano che significò molto, per tutti noi. Il Dauntaun del Leoncavallo era divantato ormai da anni una nostra seconda casa, un punto di coniugazione strategico per la nostra sete di dischi, di amici, di condivisione. Il “Punk Monster Festival” capitò l’ultimo weekend di maggio e non mi riuscì di concentrarmi su nulla. I Concrete passarono, i Gonna Fall Hard anche, i Comrades no. Pochi pezzi, tanta foga, ottime ed incredibili berciate, un paio di mucchi ai piedi della grancassa. Uscii dalla sala del palco pieno di graffi e senza una scarpa. Il “karaoke punk hardcore” visse in quei momenti la sua massima espressione, per quanto mi riguarda. Vivevamo un’epoca in cui nascevano troppi gruppi nuovi, troppe etichette fini a loro stesse, troppi gruppi azzimati per le occasioni, era persino diventato troppo facile e noioso trovare una fonte di ispirazione o un motivo di confronto. Con i Comrades invece non è mai stato così: sono sempre stati ai margini della cosiddetta “scena”, hanno evitato quel processo di disperata necessità di suonare e partecipare ai concerti ad ogni costo, di mettersi in mostra. “We are Comrades from Rome, now we cook some fucking pasta and you shut up!”, frase di apertura al loro live registrato per  “Katenaccio e Kontropiede”, riassume in breve la loro poco affabile ironia.

L’aver saltato un loro concerto a pochi passi dall’ingresso del mio tranquillo palazzo di provincia, dove tutti si conoscono e guai andare ad abitare fuori dal quartiere è stato il momento in cui mi sono, forse, sentito più vicino a loro. La loro musica, i titoli delle loro canzoni non erano stati creati per poter far sorgere sensi di colpa. Ero rimasto lassù con il gelo che mi entrava nei polmoni nonostante fossimo quasi in maggio, nonostante stesse per arrivare il 25 aprile. Ho sempre ammirato maggiormente quelli che ci provano, rispetto a quelli ci riescono. Youth is gone, crew is dead.

Photo credit: INTOTHEVOIDVISUALS (Marco Pasini)

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