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“Suffer”, un ruggente menestrello dalla parte degli ultimi

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Non tutte le band nascono con il proposito di sfondare nel mondo della musica. Quando il quindicenne Greg Graffin diede vita ai Bad Religion insieme a tre ragazzini più o meno della sua stessa età (il chitarrista Brett Gurewitz, il bassista Jay Bentley e il batterista Jay Ziskrout, sostituito più tardi da Pete Finestone) voleva solo divertirsi un po’ e scopiazzare le canzoni punk e new wave che ascoltava ogni giorno su KROQ, la sua stazione radiofonica preferita.

Eppure la totale mancanza di aspettative non gli impedì di fare breccia nei cuori di tanti seguaci della scena hardcore californiana già al primo colpo: nel 1982 il debutto “How Could Hell Be Any Worse?” fece rizzare più di qualche orecchio in quel di Los Angeles. Chissà, forse fu proprio questo inaspettato successo a convincere Graffin e Gurewitz, i due cervelli dei Bad Religion, a trasformare un passatempo adolescenziale in qualcosa di più grande. In men che non si dica al puro divertimento si sostituì un’ambizione forse anche fin troppo grande per dei ragazzi freschi di diploma: non poteva andare a finire bene. E infatti fu un colossale disastro.

Proviamo a fare un salto indietro nel tempo e immaginiamoceli rinchiusi nel garage della casa della madre di Greg, una lurida topaia propriamente ribattezzata The Hellhole. Siamo all’inizio del 1983: i nostri si apprestano a comporre i brani che andranno a costituire il loro secondo lavoro, ma le idee latitano. Il classico schema punk del “tre accordi e via” comincia ad andare stretto a Brett Gurewitz, che per dar slancio al processo creativo decide di presentarsi in sala prove con un sintetizzatore nuovo di zecca.

Sembra essere il momento giusto per staccarsi dal carrozzone hardcore e battere strade inesplorate: perché non tentare di unire punk, power pop, progressive rock e AOR e vedere che succede? Qualcosa del genere “Black Flag che fanno le cover dei Cheap Trick facendosi prestare gli strumenti dai Toto”. Una prospettiva talmente terrificante da convincere i duri e puri Bentley e Finestone a fuggire via a gambe levate. A sostituirli viene chiamata una delle più oscure sezioni ritmiche di sempre, formata dalle meteore Paul Dedona e Davy Goldman, con la quale Graffin e Gurewitz registrano lo sciaguratissimo “Into The Unknown”.

La leggenda lo dipinge come uno degli album più orrendi della storia del rock, ma chiunque sia riuscito ad ascoltarlo in qualche modo lo sa: in fin dei conti si tratta di un lavoro molto meno brutto di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. È qui infatti che timidamente emergono alcune caratteristiche poi diventate marchi di fabbrica del suono dei Bad Religion: arrangiamenti elementari ma curatissimi, ampio risalto alle chitarre soliste e soprattutto un’attenzione maniacale per melodie di stampo ‘60s, rese ancora più incisive dalla voce già abbastanza matura di Graffin e da cori e controcanti degni del più ispirato Brian Wilson.

Quei maledettissimi sintetizzatori (che oggi suonano terribilmente datati, tra l’altro) non li digerì però proprio nessuno: i fan voltarono le spalle ai Bad Religion, che di lì a poco decisero di staccare la spina una volta per tutte. Altre avventure attendevano i nostri eroi: Graffin si gettò a capofitto nello studio, arrivando addirittura a conquistarsi un dottorato in geologia alla Cornell University; Gurewitz, d’altro canto, preferì dedicarsi anima e corpo all’eroina.

Per convincere il primo a rimettere in piedi la band fu necessario l’intervento di Greg Hetson, il chitarrista dei Circle Jerks: insieme a lui i rinnovati Bad Religion (con Finestone ancora dietro le pelli) riscoprirono la passione per il punk e, nel 1985, si tolsero pure la soddisfazione di dare alle stampe l’EP del ritorno a un territorio conosciuto come quello dell’hardcore melodico (“Back To The Known” del 1985). Il rientro in formazione dei figlioli prodighi Jay Bentley e Brett Gurewitz fece il resto: il quintetto era finalmente pronto a lavorare a un nuovo album.

Quando “Suffer” arrivò nei negozi in quel lontano 8 settembre 1988, la scena hardcore della California del sud era ormai attaccata ai macchinari di supporto vitale. Lì per lì il disco non suscitò grande clamore: a un anno dall’uscita risultarono essere state vendute solamente tremila copie. Tante di queste finirono però nelle mani di chi, nel decennio seguente, arrivò a guadagnare bei quattrini sfruttando le intuizioni e le idee di Graffin e soci. Fat Mike dei NOFX, magari esagerando un po’, lo definì “l’album che cambiò tutto”; altri ancora lo considerano addirittura il capostipite della terza grande ondata della musica punk.

Sicuramente si tratta di un lavoro epocale: prima di allora nessuno aveva mai proposto nulla di simile. In quindici brani che a malapena superano i due minuti di lunghezza media, i Bad Religion riuscirono a traghettare l’hardcore dalla rabbia cieca degli albori alla brama di riscatto di chi, in piena epoca reaganiana, era abbastanza maturo da considerare la sofferenza un’occasione positiva di crescita. Greg Graffin ha un approccio quasi folk al punk: quando canta si sente che ci mette l’anima, che crede fermamente in quello che dice.

In “Suffer” si ripresentò al mondo nelle vesti di un ruggente menestrello sempre schierato dalle parte degli ultimi, pronto a difendere a spada tratta i più deboli a colpi di vocalizzi e testi talmente complessi da richiedere un dizionario a portata di mano per coglierne tutti gli aspetti. D’altronde stiamo parlando di un album che, stando a quanto detto in passato da Brett Gurewitz, vede come primaria fonte di ispirazione l’opera dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij.

Proprio come il gigante della letteratura ottocentesca, anche i Bad Religion riconoscono l’enorme valore catartico del dolore. Un fuoco che divampa ma non distrugge; brucia la carne ma non piega lo spirito. Nel ragazzo in fiamme sulla copertina di “Suffer” c’è tutto l’orgoglio e la voglia di rivalsa di un giovane di quasi 24 anni (Graffin) che pretende di fare la differenza in un mondo che non nutre alcun interesse nei confronti dell’uomo comune. Da qui i versi che chiudono You Are (The Government): You are the government/You are jurisprudence/You are the volition/You are jurisdiction/And I make a difference too.

Il diritto di contare si riduce tuttavia a mera illusione in What Can You Do? (You mean nothing to the world/We’re all someone else’s fool/But oh, what can you do?), mentre nella meravigliosa title track emerge un pessimismo talmente acuto dal quale davvero non sembrano esserci vie di fuga (People blow their minds/They choose to resign/This deformed society/Is part of the design/It’ll never go away/It’s in the cards that way/The masses of humanity/Have always, always had to suffer!).

Ma, in fin dei conti, non si tratta pur sempre di vecchio, sano punk? E allora perché non fare tutti come ci pare? Trent’anni dopo, in un’epoca dominata da imbecilli che si credono geni e bulletti da quattro soldi che si spacciano per leader forti, le parole di Greg Graffin in Do What You Want suonano proprio come un irresisitibile invito: So do what you must, do all you can/Break all the fucking rules and/Go to Hell with Superman and/Die like a champion, yeah hey! Fino a quando non arriverà il nostro momento di “morire come campioni”, però, limitiamoci a soffrire.

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