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“Blood Sugar Sex Magik”: nella folle dimora dei monaci del funk

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Nonostante il novero delle mie band preferite sia piuttosto ampio e trasversale, i Red Hot Chili Peppers non vi sono mai rientrati. Sarà perché assai raramente si sono allontanati dalla formula funky/rock che ne ha fatto la fortuna finendo per venirmi a noia. Oppure che avendoli conosciuti in anni in cui godevano di ampi spazi sui media musicali, con possibilità di reperirne la musica in maniera assolutamente agevole, la curiosità mi ha spinto ad approfondire maggiormente l’ascolto di altro. Ad ogni modo ne ho apprezzato e ne apprezzo tutt’ora più di una canzone, in particolare alcune contenute nel disco di cui mi appresto a parlare.

Nel 1991 il quartetto californiano aveva già un curriculum di tutto rispetto: un secondo album prodotto da George Clinton dei Funkadelic/Parliament, evidente e dichiarata fonte d’ispirazione del loro sound solare e scanzonato, un primo ingresso nelle classifiche di Billboard grazie alle 200.000 copie di “The Uplift Mofo Party Plan”, lunghi tour e purtroppo anche la perdita del chitarrista Hillel Slovak in seguito a un’overdose. Rimaneggiata la formazione con l’ingresso di un giovanissimo John Frusciante e posto Chad Smith dietro le pelli, il primo disco d’oro fu conseguito in seguito all’uscita del più che interessante “Mother’s Milk”.

Passati dalla EMI alla Warner, stando alle parole dei componenti il nuovo ensemble non era ancora ben rodato come si potrebbe pensare. Né era completamente convinto nell’apprestarsi a lavorare con Rick Rubin quando iniziò a palesarsi alle loro jam session dopo averne apprezzato più di un’esibizione dal vivo. Il cantante Anthony Kiedis parlò di tutto il tempo speso a provare le canzoni come di un lusso che in passato non si erano mai potuti concedere. La fase di pre-produzione di “Blood Sugar Sex Magik” durò ben nove mesi. “ [Rick] se ne stava sdraiato sul divano con quella sua barbona enorme e sembrava sempre che stesse schiacciando un sonnellino. Ma in realtà stava assorbendo come una spugna ogni nota, arrangiamento, testo e tematica”. Superati gli iniziali dubbi il sodalizio verrà mantenuto per vent’anni.

L’attitudine della band a pezzi ritmati e orecchiabili risplende affinata e portata a piena maturazione in brani come le sincopate If You Have To Ask e Funky Monks, gli oltre otto minuti della più articolata Sir Psycho Sexy, il potentissimo e abrasivo singolo Give It Away.  Iniziarono inoltre a emergere segnali di volontà di esplorare altri lidi: l’arrangiamento con mellotron e organo di Breaking The Girl – scritta sulla dodici corde – ma soprattutto gli inaspettati squarci introspettivi di I Could Have Lied e Under The Bridge. La seconda in particolare sarà destinata a divenire un grande successo e un incrollabile cavallo di battaglia. Nata come una poesia del frontman in seguito alla propria ritrovata sobrietà, Flea ricorda: “John e Anthony avevano una melodia, Chad e io abbiamo aggiunto quello che potevamo. Poi è arrivata in studio la mamma di John, che insieme al suo coro della chiesa ha cantato le parti d’accompagnamento sul finale. È stato davvero pazzesco vedere tutte queste donne che cantavano: ‘…under the bridge downtown…’. Alla fine stavamo suonando insieme e abbiamo avuto uno di quei momenti grandiosi dove ci si guarda l’un l’altro e la musica è lì che semplicemente scorre attraverso di te”.

Pur incoraggiando la band all’inserimento di (pochi) elementi di rottura col proprio passato prossimo, Rubin cercò di catturarne al meglio l’essenza fondamentalmente allegra e giocosa. “È incredibile quanto questo disco sia asciutto e personale. Quello che senti è quello che c’è – senza molti trucchetti o altro. Un sacco di gente vuole che il proprio sound sia il più grosso di tutti, con muri di chitarre e la batteria bella potente. Ma io non credo che queste cose siano importanti… I ’suoni nuovi’ hanno la tendenza a sembrare vecchi quando arrivano ‘i nuovi suoni nuovi’. Ma un pianoforte a coda aveva un suono eccezionale 50 anni fa e avrà un suono eccezionale anche tra 50 anni. […] Io cerco di fare dischi che abbiano questa caratteristica di essere senza tempo. E più il tempo passa, più amo quel sound organico dato da tutti che suonano insieme nella stessa stanza, guardandosi in faccia. Se non ti preoccupi della perfezione delle singole parti o della perfezione del suono, ottieni la performance migliore”.

Forse perché troppo preso dall’entusiasmo dovuto al raggiungimento dell’apice della propria summa stilistica il quartetto commise un errore: diciassette brani con così poche variazioni sul tema, rischiano di essere troppi per non annoiare. Addirittura pare si stesse pensando a un doppio album su cui però l’etichetta pose il proprio veto. Ciò non impedì ai RHCP di compiere il cruciale passaggio da realtà di culto a una delle più famose rock band del pianeta. Uno status di cui pochissimi possono fregiarsi, a un tempo amati, snobbati e imitati in ogni dove.

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