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“Four Minute Mile”: un tempo per crescere, un tempo per ricordare

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Durante le mie estati passate in montagna, io e mio padre andavamo spesso “su”. Ora lo chiamerebbero “trekking” o “hiking”, noi ne parlavamo come un “andiamo su” o un “andiamo in quel tal luogo”, tralasciando quasi in disparte l’aspetto tecnico della cosa. Non appena aveva due giorni di riposo attaccati, usciva da lavoro e si precipitava dopo un viaggio di centocinquanta chilometri in valle, dove io trascorrevo con coerenza le vacanze estive con i miei nonni materni. Alle volte non mi avvertiva nemmeno delle sue intenzioni, ne parlavamo il giorno prima, magari al telefono, e io accettavo sempre. Erano tutti sentieri che, bene o male, aveva già percorso da giovane, anche se ripeteva in continuazione che fossero stati ribattuti di recente, per fortuna.

Ci svegliavamo presto per controllare, guardando dalla finestra di casa nostra, che il tempo fosse adatto all’escursione. Non ci dovevano essere nubi, verso le cime che si vedevano dal paese. Poi ci vestivamo in silenzio, prendevamo un caffelatte in cucina e imbracciavamo gli zaini preparati la sera prima con gli antivento, le banane, il cioccolato, i cappelli, le felpe, il siero antivipera e la sua pesantissima macchina fotografica Zenit. Prima di arrivare alla macchina, quando ancora non c’era in giro anima viva, ci fermavamo dal salumiere per farci fare dei panini con il salame e il formaggio, riempivamo le borracce ad una delle tante fontanelle che costellavano la parte più bassa del centro abitato e ci mettevamo in macchina. Il sonno mi passava non appena l’aria fredda mi passava tra le maniche della maglietta: ero pronto. Ci portavamo anche il cane. Il mio cane. Gli facevamo bere dalle nostre mani qualora i ruscelli che incontravamo sulla strada fossero stati troppo difficili da raggiungere e gli davamo il suo cibo per cani, disponendolo attentamente su un sasso liscio. Lo finiva in cinque secondi netti, velocissimo, e allora gli allungavamo pezzi dai nostri panini perché avevamo paura si fiaccasse troppo: andava su e giù per il sentiero davanti a noi, facendo da apripista.

Ogni tanto, quando avanzava troppo e perdeva il contatto visivo con me o mio padre, si fermava su qualche poggio rialzato dal quale potesse dominare il sentiero, in modo da ritrovarci con lo sguardo. Una volta avanzò forse troppo, eravamo in un bosco di larici altissimi al limite dei duemila metri. Il sottobosco era un tappeto di felci, muschi e piante di mirtillo. Lo chiamammo ma non tornò e la cosa fu molto strana. Non ci preoccupammo più di tanto comunque, continuammo la nostra marcia nella speranza di vederlo in piedi, le orecchie indirizzate verso di noi e la coda abbassata. Dopo aver avanzato di venti metri, lo ritrovammo al centro del sentiero, voltato verso la fine del bosco che veniva preannunciata da una radura, sulla quale riusciva a filtrare il sole. Non guardava verso di noi, come al solito, ma verso la continuazione del sentiero. Un enorme cervo attraversò la radura e Whiskey (così si chiamava il nostro cane) rimase a fissarlo senza muoversi, impietrito. Aveva paura, disse mio padre, e continuammo a camminare lungo il nostro percorso.

In cinque anni finimmo tutte le escursioni fattibili nella nostra valle, e ci spostammo pian piano a quelle attigue. Smettemmo di andarci quando iniziai ad ascoltare “Something To Write Home About” dei Get Up Kids, era il 1999 e cambiammo località di villeggiatura, spostandoci in una valle che già avevamo perlustrato da cima a fondo nelle nostre camminate, gli anni precedenti. Io fui preso da altre cose, purtroppo. Mio padre non so, non è che ci parlassi molto in quegli anni.

“Hai visto il video di quelli che cantano nella cornetta del telefono appesa al soffitto? Geni!” Grazie alla Epitaph sezione Europa iniziai così a scoprire il cosiddetto “emocore”, quel tipo di punk che non è proprio punkrock, oppure quel tipo di pop che però è molto più aggressivo e soprattutto meno commerciale. Innanzitutto, “Four Minute Mile” uscì per Doghouse. La Doghouse fece uscire Hot Water Music, As Friends Rust ed Endpoint dopo quel fatidico 1994, l’anno in cui, cioè, tutto cambiò radicalmente in America, riguardo alla concezione nel suonare punk rock melodico. Una scelta coraggiosa, quella di continuare a calcare il peso sull’hardcore quando ormai tutto stava perndendo una linea più leggera e decisamente meno impegnata. “Something to Write Home About” invece si accasò alla Vagrant con il supporto di Epitaph per il Vecchio Continente. Il video di Action & Action venne incluso in una videocassetta, intitolata “Punxploitation”, che mi fece conoscere la loro musica. La vhs conteneva, tra gli altri, videoclip di Beatsteaks, Millencolin, Dropkick Murphys, Hives ( che all’epoca detestavo), Raised Fist, No Fun at All ed era nata dalla collaborazione di Epitaph Europe e, come potrete già immaginare, Burning Heart. Io guardavo solo il video di Action & Action, più che altro perché era l’unico modo in cui potessi ascoltare i Get Up Kids.

Ma i Get Up Kids, con il loro primo disco, quello che accantonai per troppo tempo, funzionarono da indispensabile trait d’union tra un embrionale emocore fatto di sentimenti ruvidi e questa nuova smania tutta americana e nordeuropea di suonare e vivere la propria vita in modo veloce, allegro ed appetibile. Proveniendo dal Midwest, probabilmente, non subirono mai così tanto, come per esempio avvenne per i Sensefield, l’influenza del mare, dei bragoni larghi e delle half-pipe.

Se avessi ascoltato sin da subito il primo disco dei Get Up Kids da Kansas City, “Four Minute Mile”, uscito nel settembre del 1997, probabilmente non avrei accantonato il discorso delle escursioni in montagna con mio padre, tralasciando qualche altro superfluo interesse che a larghe faglie iniziava ad occupare le mie manesche giornate tardo adolescenziali. La prima canzone del disco che ascoltai fu Stay Gold, Ponyboy. Ovviamente. Mi ero prefissato, un paio di anni prima, di guardare la cinematografia intera di Francis Ford Coppola e giusto in quei giorni, nell’estate del 1999, “Fuori Orario” mise nel cartellone una manciata dei suoi film. Ponyboy è il protagonista de “I ragazzi della 56esima strada” e viene esortato dal suo migliore amico Johnny, in fin di vita, a rimanere come sia sempre stato: puro, insolente, testardo. Quel “gold” può tutt’ora essere letto secondo molteplici interpretazioni, anche tra loro discordanti. “Old enough to know better /Young enough to pretend / This is the last of my letters”: questa scansione temporale del potere o non poter fare qualcosa è tipica del nostro punk rock. Delle canzoni che abbiamo ascoltato ma anche di quelle che magari abbiamo scritto.

I Get Up Kids di “Four Minute Mile” diventano quindi i classici ragazzi con un po’ più di esperienza di te, che passano oltre al tuo essere metallaro o ascoltare hardcore. Sono capaci di criticarti perché ascolti gli Strife e gli All Out War ma ti danno tempo per crescere, secondo la loro opinione. La canzone mi sembrò più complicata e meno lineare rispetto ai pezzi appartenenti al secondo disco, che ormai avevo fatto miei, ma proseguii con l’ascoltare tutto l’album, senza soste. Alti e bassi, inizi irruenti e poi i ritornelli che arrivano confusi in Coming Clean: forse il suonare punk rock molto più forte rispetto ai gruppi punk rock propriamente detti, ai gruppi di quel 1994, era proprio questo.

Per “Four Minute Mile”scrissero pezzi molto corti (eccezione fatta per Michele With One L) forse per paura di arrivare senza fiato o di risultare troppo sussiegosi, ma in realtà diedero vita ad un vero e proprio nuovo genere musicale. Don’t Hate Me è praticamente solo voce, se ci fate caso. Il ritornello, forse il più famoso dell’intero album e tra i più cantati della band, potrebbe passare benissimo in secondo piano rispetto alla complicata costruzione del brano: Fall Semester ne sembra quasi la naturale continuazione, un’appendice più calma e remota.

Un inverno mi trovavo al Pacì Paciana, a Bergamo. Un gruppo di Novara in cui ovviamente suonavano i miei amicim aveva una data, le altre bands erano i With Love e i Books Lie. Ci accompagnavamo spesso tra di noi e tra gli svariati gruppi in cui suonavamo, ci muovevamo in massa. Come al solito, la sala (il cosiddetto “Bunker”, posto al di sotto dello spazio più grande ed utilizzato del Centro Sociale orobico) era contornata da distribuzioni e banchetti e spesi una buona dote in materiali, dischi e toppe. Comprai una patch con la copertina di “Yank Crime” dei Drive Like Jehu che l’influenza del mare la sentivano benissimo, ed un’altra toppa, più lunga, dei Get Up Kids, raffigurante una spiga di grano posta al di sotto di uno dei loro loghi meno conosciuti, un carattere da macchina da scrivere bianco contornato da un’ombra dorata. La cucii sulla tasca esterna del mio Eastpak blu scuro, lo zaino che utilizzavo per andare in montagna con mio padre e che da qualche anno, ormai, era diventato quello per i concerti, vicini o lontani che fossero. Non associai subito la spiga di grano alla loro provenienza geografica, non me ne curai. Ma a pensarci bene, se avessi prestato più attenzione alla storia dei Get Up Kids durante gli anni in cui ascoltavo esclusivamente hardcore-punk, sarei tornato con mio padre in montagna.

Adesso invece è tardi. Adesso conto i giorni che mi separano dal venerdì sera già partendo dalla mattina del lunedì, li conto a seconda della raccolta differenziata da portar giù prima di cena, dal livello di stanchezza con cui rientro a casa dopo gli allenamenti, dai programmi in televisione. Non poter fare affidamento su una congiunzione temporale, nel modo in cui i propri interessi si evolvono, non è nient’altro che uno degli aspetti più devastanti che compromettono il nostro tempo libero.

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