Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Kid A” nei gelidi pomeriggi dell’anima

Amazon button

Mi fa sempre strano tornare così tanto indietro, dover affrontare lo schermo della memoria, che ad ogni passo avanti trasforma ciò che mi lascio dietro, ricopre con una patina di piacere e dolore estremizzati a seconda dell’oggetto della rimembranza, come se fosse un meccanismo preciso e naturale come per me è sbuffare ogni volta che leggo i commenti degli hardcore fan dei Radiohead.

Mi risulta sempre più difficile mettermi davanti al pc, aprire il foglio bianco – o il documento di testo, se volete – e fissarlo per decidere cosa scriverò ogni volta per ogni dannato/fantastico disco incasellato su una delle mie librerie, su una colonnina o sul letto, poggiato sulla scrivania, finito chissà dove. Riportare alla memoria cosa mi condusse a contatto con questo o quel gruppo, come mi fece sentire, sempre più lentamente, a volte sopraffatto dall’idea di chi leggerà o chi non lo farà. Solo l’idea, nient’altro. Con “Kid A” tutto ciò viene meno, o almeno la parte riguardante la memoria.

Fu un incontro semplice, di quelli da adolescente a cui non badi fintanto che non ci sei dentro mani e piedi, che vi devo dire. Era un gelido pomeriggio come tanti e anziché studiare per quel maledetto primo anno di superiori mi ritrovavo come sempre a farmi bellamente i cazzi miei incollato ad MTV. Ora, se si innescasse quel meccanismo mnemonico di cui sopra in tutto il suo incredibile potenziale romantico potrei dirvi che passavano solo video fantastici di band pazzesche e invece no: fu una giornata terribile piena di video di merda di artisti che scriverlo senza virgolette mi dà persin noia.

Nel preciso istante in cui decisi di pigiare il pulsante rosso di spegnimento sul telecomando in alto a sinistra comparve il logo di Brand New e subito la mia attenzione si accese poiché Brand New era l’ancora di salvezza in giornate passate a contemplare il culo di J.Lo o le mosse ridicole dei Backstreet Boys o, peggio ancora, sopportare Alexia o i Lunapop. Beh, fatto sta che pochi secondi dopo sullo schermo comparve un disegno stilizzato di un orso poggiato su quella che credevo fosse una lastra di ghiaccio galleggiante sulle onde di quello che si sarebbe potuto dire un mare? Un lago? E in sottofondo questa musica amena, aliena, assurda (vai con la tripla A), una musica che allora non potevo comprendere sicché il massimo della sperimentazione in quel momento della mia vita erano o gli Emerson Lake & Palmer o i King Crimson e stavo iniziando a capire più della violenza attraverso Korn, Deftones e At The Drive-In. Il mare diventò rosso e l’orso ora era il tristo mietitore, gli occhi accesi e il ghigno mostruoso sembrava ancor più spaventoso e intanto le note allungate di quello scampolo di brano mi dilaniavano. Al termine di ciò rimase solo la testa dell’animale e un nome: Radiohead. Chi erano costoro?

Mi resi conto nei giorni successivi che quei micro video continuavano a passare ad una strana intermittenza. Sapete, per un quattordicenne che vive nell’oscura provincia piemontese, squattrinato e senza una radio con lettore CD (internet non lo menziono nemmeno) fu difficile risalire alla fonte di tutto ciò. Finché non mi comprai una radio decente grazie a dei lavoretti e non ebbi i soldi in mano per…Per cosa? Quel disco non sapevo nemmeno fosse uscito. Ma così come erano arrivati quelli che in seguito scoprii essere chiamati blips arrivò anche il videoclip di Idioteque. Di nuovo il logo di Brand New questa volta accompagnato dal sottotesto “world première”. Porca puttana. Cosa stavo ascoltando? Il ritmo sincopato al limite della “dance” – oggi direi d’n’b – più oscura troneggiava sulle flebili onde di una melodia otturata da distorsioni e quelli che si potevano definire glitch in un sistema di computer impazziti per il Millennium Bug e poi entrò la voce, una voce sofferta che dal basso dei propri toni medi saliva in un falso falsetto rubando la vita dal corpo dell’ascoltatore, le energie prosciugate. Fu l’inizio della fine. In quel preciso istante mi resi conto che c’era tanto oltre quello che conoscevo, che l’elettronica poteva essere quel valore aggiunto e chi chiunque la vituperasse altri non era che povero d’idee.

Poco tempo dopo stringevo in mano il CD e quant’era bello anche solo guardarlo. Il libretto era assurdo, coi suoi fogli trasparenti e ruvidi e quelli lisci ma colorati smorti, con rendering mischiati sapientemente – anche se non si direbbe – con tratti di matita inferociti. Landscapes, Knives and Glue by Stanley and Tchock dicevano le linear notes. Stanley Donwood e Thom Yorke. Donwood che disegnò quell’orso per le fiabe della buonanotte per i suoi figli (papà dell’anno), Yorke che cantava in quel modo a mo’ di angelo caduto nella tazza del cesso di una laida bettola britannica.

Inserito nello stereo il colpo fu di quelli che non dimenticherò mai e poi mai. Mi aspettavo altre ritmiche come quelle di Idioteque – mi resi conto solo dopo che quello del video era un live in studio – e invece si espanse nella stanza Everything In Its Right Place e il suo aritmico incedere sintetico e obliterante mentre le lacrime solcavano il viso rigandolo per sempre. E l’album si snodò nella sua interezza, gli strumenti tradizionali trattati ed affogati in una produzione extraterrestre facevano capolino di rado e sempre indossando maschere che ne celavano l’identità stagliando ombre distorte come quadri espressionisti provenienti dal 2099 su mura diroccate nella periferia più asettica della metropoli più inglese possibile. Voci e cori si incastrarono sul resto rimanendo sul pelo di acque elettrificate, archi e ottoni che si impennavano verso le nuvole nere cariche di pioggia rossa e scura che rovesciarono il loro contenuto sulla mia testa ormai inclinata dal peso di tutta quella emotività e novità.

Dieci anni dopo quel fatidico giorno mi tatuai l’orso di Donwood su un polso, non tanto per dimostrare a chicchessia quanto mi innamorai di “Kid A” ma perché fu un momento di cambiamento importante, di quelli che capitano una o due, tre volte al massimo in una vita fatta di ascolti. Sei anni più tardi finii per “bocciare” il loro nuovo disco, con la delusione nel cuore di chi vede coloro che hanno contato tanto lasciarsi andare nel vuoto sorretti più dall’hype degli hardcore fan di cui sopra, che continuo a sopportare davvero poco. Mi venne quasi voglia di dare adito alle parole di Robert Smith quando disse che non tutto ciò che fanno i Radiohead è oro, ma in fondo il cantante dei Cure mi risulta insopportabile tanto quanto i succitati fanboys.

Fatto sta che il tempo passa, le band stingono, le fanbase irritano ma dischi come “Kid A” rimangono, ora e sempre, scolpiti indelebilmente nell’etere. L’anima qui non è pervenuta.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati