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“Adrenaline”: sfondare la porta del nu-metal

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Anni fa – anche se sarebbe più corretto e narrativamente delizioso dire una vita fa – me ne andavo in giro bighellonando coi miei amici in uno dei tanti pomeriggi in fuga dallo studio delle scuole superiori quando un tizio che conoscevo mi fermò e, con lo sguardo dei veri matti, mi chiese: “Korn o Deftones?”

Lì per lì non ci pensai su un granché e risposi “Korn, che domande!”. Era un periodo strano, e quando si è così giovani si è solo che gonfi di rabbia e le liriche di Jonathan Davis erano per me fonte di ispirazione maxima, prova ne sarebbe stata la mia voce registrata su dischi di dubbio gusto. A quel tempo era da poco uscito “White Pony” e certo, ne avevo una maledetta copia a casa e lo ascoltavo tutte le sere ma la rabbia era ancora troppo pressante e finivo sempre col tornare ai cinque di Bakersfield. Non mi accorgevo nemmeno di quanto invece ascoltassi “Adrenaline” col fare di chi sta cambiando il proprio pensiero. Perché assieme al disco del cambiamento nella casa delle mosche comprai pure il debutto dei ragazzi di Sacramento. Era in offerta, e che diamine.

Ci tornavo di continuo anche perché il loro approccio a quella materia informe che fu il nu metal era davvero strano già in quel lontano 1995, forse perché il genere non si era ancora formato davvero o forse perché i Deftones non vollero mai adeguarsi all’ondata generazionale che ne seguì, come invece fecero i cuginetti Korn. Non erano le vicissitudini famigliari da incubo a muovere la violenza di quell’album bensì la voglia di sfogare frustrazioni più teen, anche più prosaiche volendo, di divertirsi e fare macello, come finii per leggere su un’intervista contenuta in un vecchissimo numero della rivista Hard pescato chissà dove. Se invece cercate qualcosa sul Tubo troverete un giovanissimo Chino Moreno dire: “Mi piace suonare, mi piace divertirmi, mi piace che la gente canti con me e mi piacciono i Weezer.” I Weezer, capite? non i Cannibal Corpse come avrebbe detto un sacco d’anni dopo Jon Davis, i Weezer.

Eppure di metal da queste parti ce n’era quanto ne avrebbe voluto qualsiasi metallaro. Stephen Carpenter era – e presumo sia ancora a ben sentire i suoi riff – un fan sfegatato dei Meshuggah. Volete mica che non si senta anche qui? Che chitarre ha “Adrenaline”? Lo avrà pensato anche Madonna quando qualcuno dello staff della sua Maverick Records le passò il demo del quartetto californiano portandola a metterli sotto contratto. Ok? Una band di rara ferocia adolescenziale sull’etichetta di colei che fece “Erotica”, e già è sogno e capolavoro. “She’s very sweet” rispose ad una domanda il mai troppo compianto Chi Cheng. E già mi immagino le facce dei metallari, dei nu metallari, degli alternativi di tutto il mondo raggrumarsi in una serie sconfinata di smorfie e di pensieri di tradimento. Ma tradimento di cosa? Ai Deftones delle delimitazioni di genere già allora fregava poco e niente e la leggiadra pesantezza di “Adrenaline” ne fu esempio chiave di un’intera carriera. Li infilarono in tutto quel filone crossover debitore al funk alieno dei Primus ma loro non ci stavano. Nossignore.

Nemmeno dell’avere il più quotato dei produttori al banco mix fregava loro: Ross Robinson produsse giusto Fist, quel piccolo gioiellino nascosto in fondo all’album, post hardcore dai risvolti violentamente new romantic/wave che tanto piacciono a Moreno, quasi come fosse uno sguardo verso il proprio futuro, la potreste quasi quasi piazzare su “White Pony”. Ma il suono no, non è quello giusto, quello che fece la fortuna dei Deftones fu quello forgiato dalla band e Terry Date, con le chitarre a metà strada tra diafano incubo ad occhi aperti e sferragliante pioggia di lame e aperture immense, delle ritmiche d’acciaio temperato orchestrate da quel fenomeno di Abe Cunningham e delle voci che passano dal lambire lo spettro del dream pop fino a sfociare nella nevrastenia più inconsapevole ed assassina. Che sia Bored, Nosebleed, la micidiale 7 Words, Birthmark o lo stomp hc brutale di Engine No. 9 poco importa. Tutto è ad un livello superiore a chiunque altro. E Date lo battezzò, e meno male che è tornato.

Se incrociassi di nuovo quel ragazzo e mi ponesse la medesima domanda oggi la mia risposta sarebbe infine: “Korn chi?”

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