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Interviste

Intervista ai MARNERO

Marnero

Sono venuti a suonare sotto le case di tutti noi, o dietro l’angolo. Perché hanno, sin dalla loro nascita, posto l’esibizione dal vivo come punto di arrivo apicale nella loro produzione. Riassumono nella tutto ciò che di possibile la musica indipendente in Italia abbia potuto produrre negli ultimi dieci anni. Dopo una pausa di due anni, ritornano i Marnero con un disco nuovo, che delinea nuove frontiere rispetto alla trilogia con la quale avevano iniziato la loro carriera. “Quando vedrai le navi in fiamme allora sarà giunta l’ora” (qui la nostra recensione) esce grazie ad una pantagruelica coproduzione e parla di combattimenti, di rifugi precari, di indecisioni e resistenza. Ma come per ogni loro disco, non è solo musica. L’attenzione con cui vengono curati i dettagli materiali del lavoro e l’ottundente perspicacia con la quale i Marnero lavorano su ogni loro singolo passo rendono infatti “Quando vedrai le navi in fiamme allora sarà giunta l’ora“un lavoro sicuramente unico ed immancabile. Forse meno spiegato e meno parlato rispetto al precedente, ma per questo nettamente più “-core”. Le rime ci sono, le rullate d-beat alla Madame Germen anche. Gli intermezzi riflessivi sono una perenne divagazione esoterica, riempita dal violino di Nicola Manzan e da quel basso che abbiamo imparato a conoscere, senza il quale i Marnero non si chiamerebbero così e senza il quale non esisterebbero i ritornelli, cantabili ed erratici come sempre, che popolano questo nuovo lavoro. È innegabile che abbiano creato un nuovo genere, basato su un nuovo modo di percepire l’antagonismo avendolo vissuto ed elaborandolo con una particolare responsabilità. Così come un personaggio melvilliano, così come Bartleby, Jimmy Rose o il capitano spagnolo Benito Cereno, i Marnero rivelano alla fine, quando la trama è definitivamente completa e l’azione sciolta, il loro volto letterario, idealizzato e dilaniato dalla situazione che hanno voluto affrontare grazie alle loro parole. Non hanno un volto umano, i Marnero. Non si rifugiano nella consuetudine. Sono una crasi poetica vissuta tragicamente.

Abbiamo deciso di intervistarli, per l’occorrenza, in modo da chiosare con una precisione ancora più diretta e palpabile questo traguardo fondamentale. Più che un’intervista, è una chiacchierata sulle loro visioni, come gruppo musicale e come esseri sociali.

Avete dedicato i primi anni della vostra esistenza ad una trilogia. Eravate partiti da subito con quest’idea oppure è stata una decisione presa “in fieri”?

Non abbiamo ovviamente iniziato a suonare dieci anni fa dicendo “dai, adesso facciamo una mega-trilogia”, sarebbe stato segno di un ottimismo che decisamente non ci appartiene. Dunque dopo lo split coi SiNonSedesIs, nel 2009 abbiamo subito registrato “Naufragio Universale“, che era in realtà un disco composto da canzoni nuove mischiate con alcune vecchie, scritte e mai registrate dai Laghetto, mescolando alcune idee nate lungo gli anni, ma cambiandone il mood dei testi. Ad esempio, Porgi la guancia di un altro dei Laghetto è poi diventata Il Porto delle Illusioni dei Marnero. Quando, nel 2013, abbiamo composto “Il Sopravvissuto” ci siamo resi conto che quasi naturalmente stavamo continuando a raccontare una storia, soprattutto perché i nostri dischi, volenti o nolenti, ci vengono fuori sempre come concept album. Così ci è venuto spontaneo pensare che questa storia dovevamo farla concludere. Da lì è venuta fuori “La Malora” nel 2016. Questo disco nuovo, invece, è un po’ diverso, e sebbene prenda le mosse dalle stesse tematiche e dallo stesso immaginario dei precedenti, butta certe cose fuori in una maniera differente, direi un po’ più immediata e istintiva. Cambia il come, ma c’è comunque un filo forte che lo lega ai due dischi precedenti: nel Sopravvissuto si parlava in prima persona, nella “Malora” si passava dall’Io al Noi, nelle Navi in Fiamme si passa dal Noi a Loro. Perché come dice WuMing II nel Prologo, “Noi siamo Loro”.

Anche “Quando Vedrai Le Navi In Fiamme Sarà Giunta L’Ora” è nato da una coproduzione tra diverse realtà indipendenti italiane. Credete ancora che questo tipo di canale sia valido, per quanto riguarda la pubblicazione di materiale musicale? Non si commette troppo spesso l’errore di renderlo una via abbastanza impersonale e dedicata esclusivamente alla raccolta dei fondi necessari, senza una reale coordinazione alle spalle?

Diciamolo subito: nel 2018 l’unico modo sensato ed efficiente di fare uscire un disco, nell’underground, è che la band se lo autoproduca in maniera totalmente D.i.Y.: in pratica a chilometro zero. L’autoproduzione è una roba che abbiamo nel dna e nella nostra storia. In pratica ci permette di controllare ogni singolo passo del travagliato parto che abbiamo fatto, e questo è l’aspetto più importante in un disco che, per quanto ci riguarda, non è per niente una roba solo musicale. Con il free download e il mailorder siamo in grado di bypassare ogni altro tipo di mediazione, dall’autore all’ascoltatore, dal consumato al consumaturo. I dischi, ovviamente, oggi si vendono in quantità minori. Però si vendono ancora, ma solamente ai concerti-. Ai concerti si può dare maggiore qualità a questo scambio, nel momento in cui le persone interessate alle tue cose le puoi incontrare e parlarci. È uno scambio che ci dà ancora molte soddisfazioni. Scoprire che una cosa che scrivi per te, o di te, si adatta come un vestito anche alla vita di un’altra persona, che vive lontano da te e che magari non avresti mai potuto conoscere in altro modo, è molto bello. Noi, da sempre, ci autoproduciamo praticamente tutto in questo modo, ma grazie alla cordata di etichette D.i.Y., riusciamo a smazzare gli sbattimenti e a minimizzare i rischi. Queste sette etichette a cui ci siamo appoggiati per la distribuzione del disco nuovo per noi rappresentano una rete, per prima cosa, di amicizie e valori condivisi. Quindi nel nostro caso non è un’esigenza economica, ma la voglia di tenere saldi i nodi che legano una rete con una lunga storia, fatta per prima cosa di rapporti umani e amicizie, in alcuni casi, ventennali.

Parlateci degli argomenti trattati in “Quando Vedrai Le Navi In Fiamme Sarà Giunta L’Ora“. Ci sono ancora navi, maree, tempeste? 

Il nostro immaginario è da sempre il mare, luogo anarchico non recintabile, dove l’uomo non può dettare le sue leggi. Questo disco nuovo, però, è anche molto terrestre. Ci sono uomini in marcia fra le macerie di una civiltà ormai distrutta, le rovine di un intero mondo quasi estinto. E oltre all’acqua c’è la pioggia, e ovviamente il fuoco. Un fuoco che segnala l’accampamento di una resistenza: magari è solo una scintilla, o la poca brace residua di un vecchio fuoco che forse è ancora acceso, e che va assolutamente tenuto in vita per poter rendere abitato l’inabitabile, portandolo dentro la terra e nelle radici, e attendendone con pazienza i frutti. Purtroppo tutto questo non è facile: l’eterna pioggia che cade dall’alto cerca di spegnere ogni fiammella. è la pioggia del potere, un tipo di intemperia eterna che continua sempre, perché se ne frega di noi e non si può fermare, ma contro la quale si può in qualche modo resistere. Portando il fuoco, appunto. Ma l’acqua non è solo ciò che spegne il fuoco: è anche il simbolo della vita che scorre indifferente, che è incapace di fermarsi, filtra tra le crepe del mondo e lo spacca dall’interno. Grazie all’acqua, tra gli interstizi della civiltà, la vita sopravvive, infilandosi nelle brecce, allargandole sempre di più, infilando il dito tra le ferite del sistema, vivendo grazie ai suoi errori. È un concetto molto interessante secondo me, la vita che sopravvive tra gli interstizi della civiltà: l’unica potente possibilità che abbiamo, quella di infilarci negli interstizi, allargandoli sempre di più, utilizzando i bug del sistema stesso. Infilare il dito tra le sue ferite. Vivere grazie ai suoi errori. La nuova rotta nasce proprio da questa rottura.

Bologna è ancora il fulcro più fervido d’Italia in base all’impegno politico? Non è la solita domanda scontata sulla cosiddetta “scena” di una città: fuori i nomi di chi esce di casa o dalla sala prove e ancora abbia qualcosa di valido da dire ma soprattutto da fare. Fuori i nomi di chi pensa che l’essere nato e cresciuto a Bologna sia un “lasciapassare”.

Bologna oggi è spezzata. Da un lato, ambisce al titolo nuova capitale hipster, sotto qualunque forma essi si manifestino (gentrification, locali alla moda, gruppi musicali orrendi spacciati per politici). Dall’altro, i pochi posti occupati o autogestiti rimasti in città sono diventati tipo il villaggio di Asterix. Le cose, politicamente, non sono facili oggi, in questa città che vent’anni fa era il fulcro di tutto, come dici tu, ma che da tempo è diventata, invece, il laboratorio politico di tutto ciò di orribile che vediamo a livello nazionale. Gli studenti e i ventenni in generale, bombardati da milioni di input, fanno fatica a capire l’importanza di opporsi a certe dinamiche. Inoltre, chi porta avanti un certo tipo di impegno politico, spesso non riesce ad includere chi già non la pensa così, non riesce ad allargare il discorso. E così si creano le riserve indiane. È complicato. Ma da qualche parte, guardando bene, si scorge la fiammella di un accampamento.

Marnero

Il vostro gruppo di riferimento principale sono i Laghetto, ma molti di voi hanno suonato o suonano in altre band, come Si non Sedes Is, Hyperwulff e ED! I Marnero diventano quindi un punto d’incontro oppure un punto di partenza? Vi sentite cresciuti dalla vostra formazione?

Il gruppo ha fatto il suo primo concerto ad Atlantide Occupata il 26 settembre del 2008: compie dieci anni proprio in questi giorni. Era stato formato dal 50% dei Laghetto, appena passati al Non-Suonare, e inizialmente ne rappresentava la naturale esondazione “suonata”, quindi ovviamente il gruppo di riferimento erano i Lei Sapeva di Salame. La continuità con i Laghetto io credo ci sia sempre stata, se si vedono le cose nei contesti e sotto le condizioni in cui si sono create. Affrontare una scena che all’inizio degli anni Duemila si prendeva estremamente sul serio nel suo scimmiottare muscolarmente gli americani, necessitava di un approccio sarcastico e situazionista che aveva indubbiamente la sua efficacia. Ma negli anni Duemiladieci il cliché è diventato il non prendersi sul serio, e l’unico messaggio che si vede in giro è che bisogna per forza essere sempre semplici e leggeri, ironici e divertenti: il trionfo Neo-Naif, insomma… È ovvio, sotto queste condizioni, che un approccio critico che cerchi un Altrimenti, debba utilizzare altri modi rispetto a quelli che usavamo con i Laghetto. Poi in dieci anni di attività, la formazione dei Marnero ha avuto qualche modifica, per cui naturalmente anche il suono della band ha avuto le sue evoluzioni. Sono passati 5 dischi e oggi crediamo di aver raggiunto un punto di equilibrio, e il nostro suono è abbastanza riconoscibile per quello che è. Certo, siamo un po’ invecchiati, ma secondo me era una stagionatura di cui avevamo bisogno. Ci sono molte band che ci piacciono e a cui ci ispiriamo, ma credo che una delle nostre risorse sia il fatto che tutti noi quattro ascoltiamo un po’ delle cose diverse. Quando riusciamo a trovare l’equilibrio fra le nostre diverse anime, otteniamo i risultati migliori, anche perché stare lontani dai cliché di genere, e dalle pantomime del momento storico in cui si vive, è diventata sempre più una priorità, quasi un’ ossessione oserei dire.

La nascita di “Quando Vedrai Le Navi In Fiamme Sarà Giunta L’Ora“. Idee, prove, registrazioni. Dove, come, quando. Vi siete presi del tempo per registrarlo oppure siete andati avanti con i concerti, rimanendo a contatto col pubblico? Molti gruppi lo dicono proprio, “ci fermiamo”, e voi?

Di solito la gestazione dei nostri dischi è sempre molto lunga. Dopo il lungo lavoro sulla “Malora” eravamo un po’ arenati, soprattutto io, che non riuscivo a scrivere più molto perché avevo appena vomitato un intero romanzo. E poi, se non vivi, non scrivi. Ma ad un certo punto una grossa spinta a fare un disco in tempi relativamente brevi ci è arrivata dall’entrata nel gruppo di un nuovo batterista, Toni Z, che aveva una gran voglia di spaccare tutto e ci ha letteralmente trascinato verso i nuovi pezzi. Poi abbiamo conosciuto Mario Di Battista, con cui abbiamo scritto un paio di cose e ci ha dato una mano con le orchestrazioni di Nicola Manzan e Matteo Bennici, che hanno suonato gli archi nel disco. Grazie al loro lavoro siamo riusciti ad avvicinarci a certi ritmi tristi, terzinati, di origine popolare balcanica, in particolare alle musiche di Mihály Víg, il compositore dei film di Béla Tarr, e così nel disco è uscita anche una cover di cui siamo molto soddisfatti. Ma soprattutto, ciò che ci ha catapultato dentro al disco nuovo è la situazione del mondo quotidiano in cui viviamo, che ha avuto una impressionante accelerazione verso il disastro. La musica non può essere separata dal mondo in cui la si fa, dalle nostre vite. Il disastro ci ha davvero creato un’urgenza, la necessità autoterapeutica di urlare di nuovo delle cose, e stavolta queste cose sono uscite in faccia, senza tanti giri di parole, Hard Core come nel significato originario del termine.

Parlaci del tuo libro, “La Malora”. Ha molto a che vedere con la prima parte della vostra carriera musicale. Una breve genesi, comprendendo i contatti che hai avuto con le diverse case editrici e come si sono svolte le presentazioni del volume.

Il libro è nato un po’per caso. Nel 2015 ero all’opera sui testi del disco “La Malora” ma non riuscivo a venirne fuori: avevo otto personaggi, scrivevo tutto quello che potevo su ognuno di loro e avevo intenzione di ricavarci i testi delle canzoni. Ma stavo esagerando e sono venute fuori 170 pagine: tutte quelle cose non sono riuscito a ridurle in metrica, forse per scarso dono della sintesi, forse perché mentre intorno tutti cercano di semplificare, io sentivo un bisogno di approfondire certe cose. Soprattutto, consultando le tipografie, autoprodurre un booklet da 170 pagine mi sarebbe costato tantissimo. All’inizio la mia intenzione era di estrarre da questo testo le cose migliori per il disco, ma questo non bastava e quindi è intervenuto Matteo di BéBert che mi ha proposto di pubblicare il tutto in un romanzo autonomo dal disco, ma che è comunque complementare. Così l’ho rimaneggiato e lo abbiamo pubblicato. Sono riuscito a distribuirlo, grazie al disco, soprattutto ai concerti, ma anche facendo alcune presentazioni nelle piccole librerie di controcultura che resistono, malgrado tutto, in giro per l’Italia. Questo mi ha permesso di conoscere altre persone, vedere altre situazioni, e mi ha dato nuova forza per scrivere ancora qualcosa.

Il romanzo di Melville che preferite, escludendo “Moby Dick”. Sto leggendo “Billy Bud”, vi avverto.

Nonostante in questo ultimo disco parliamo molto del capitano Achab, il nostro personaggio preferito credo proprio sia Bartleby, che in qualche modo è il contrario esatto di Achab. “Bartleby lo scrivano” è un uomo che non può abitare il mondo nel quale si trova immerso così com’è, e che, soprattutto, sa di non poterlo cambiare (certamente non da solo). Lui è in fondo il primo lavoratore della storia ad occupare qualcosa. E se non bastasse, in questo libro Melville riesce addirittura a parlarci di come il capitalismo stia arrivando a occupare le nostre stesse vite facendoci credere di averci reso più liberi e creativi. Agli occhi di chi è diventato servo volontario, il gesto di ribellione di Bartleby, preferire DI NO, appare insopportabile, perché riflette come in uno specchio la schiavitù volontaria di chi non sa più, o non ha mai saputo, compierlo. E vedendo oggi tutto il dilagare della retorica delle Start Up, della creatività, del costruirsi da soli la propria prigione, la figura di Bartleby diventa ancora più importante. Come lui, finché Malgrado ce lo permette, noi ci proveremo ancora, a preferire di NO.

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