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Kurt Vile – Bottle It In

2018 - Matador Records
indie rock / folk

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Tracklist

1. Loading Zones
2. Hysteria
3. Yeah Bones
4. Bassackwards
5. One Trick Ponies
6. Rollin With The Flow
7. Check Baby
8. Bottle It In
9. Mutinies
10. Come Again
11. Cold Was The Wind
12. Skinny Mini
13. (bottle back)


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Davvero sono passati già tre anni da “B’lieve I’m Goin Down…”? Eppure non me ne sono nemmeno accorto. Sarà che quel disco lo ascolto una volta la settimana e suona sempre fresco, nuovo, appena uscito. Eh, sì, sono davvero tre anni, sarà anche che “Lotta Sea Lice” in compagnia della Barnett non mi ha detto granché ma Kurt Vile non sembra mai mancare nonostante il tempo passi nel suo incedere inesorabile. Invece rieccolo, nuovo nel suo essere sempre vecchio, ma mai vecchio nel suo essere immensamente piccolo, e con piccolo non intendo meno bravo di quanto sia a tutti gli effetti. Uno qualunque, dicevo nella recensione di quel disco, e ancora è quel ragazzo qualunque, anche se oggi di anni ne ha quasi quaranta, il ragazzo.

La sua voce a metà strada tra l’Iggy Pop più abissale e chansonnier e J Mascis (sono sempre dell’idea che Vile sia il suo erede naturale) fa scintille anche sul “Bottle It In” e rimane sempre uguale a sé stessa. La calma che si snoda nelle melodie vocali, il trascinarsi nel raccontare quello che capita nella sua testa e attorno ad essa è intaccato, migliora di anno in anno e si muove di sbieco sui sentieri già tracciati e i Violators sono ancora a qui ad accompagnarlo sottolineandone i sostanziali punti di forza. Certo, non pretendevo che il nuovo lavoro di Kurt fosse la metà profondo del suo predecessore e infatti così non è, perché di dischi come quello ne escono pochi, gli artisti ne scrivono uno o due in carriera e il Nostro ne ha già scritti almeno tre, quindi, che dire, si può anche solo confermarsi una volta tanto, senza superarsi.

Sono belli i rumorismi di chitarra in reverse che si fanno schermo di un indie-pop sempre più leggero nella sua pesantezza intrinseca e anche gli sviluppi folkeggianti, sempre più presenti e incuneati in un passato a metà tra Albione (Loading Zones) e Stati Uniti (Come Again è pazzesca). Vi sono momenti in cui la differenza si nota nella lunghezza dei brani e non sempre portano a buon fine gli snodi di un brano, esempio chiave ne sia Bassackwards che pare tanto immobile dal riportare alla mente (purtroppo) Kozelek. Quando le cose si muovono uptempo e sotto un sole stinto dipinto da cori e coretti che nella loro semplicità diventano punto di forza.

Si piazza di traverso anche qualche bel synth ruggente a far da cassa di risonanza ad una chitarra pungente con tanto di ritmica robusta a rendere il rock preminente sull’indie e il gioco è fatto. Ma come altrove ho avuto modo di dire si sbrodola troppo (i pezzi sui 10 minuti sono ben tre e non ci siamo) e si finisce per diluire qualcosa che altrimenti avrebbe avuto tutt’altra spinta. Ma qui, più che sulle composizioni, il gioco è sui suoni, spesso strambi come strambo è il loro creatore.

Confermarsi, dicevo, nulla più. Kurt ci ha abituati fin troppo bene e un disco di passaggio ci sta tutto, nella speranza che non diventi un’abitudine.

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