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Back In Time

Back In Time: TALK TALK – Spirit Of Eden (1988)

Talk Talk

Capita ogni tanto di sentir parlare di album che ti cambiano la vita, di esperienze che ti modificano il corso dell’esistenza. Eppure, pensandoci razionalmente, ma ha davvero senso che qualcosa frutto degli eventi di  qualcuno che nemmeno conosci, spesso lontano anni luce dal tuo modo di vivere, possa avere questo impatto devastante? In teoria no, eppure succede, se il messaggio è quello giusto e la tempistica azzeccata. Così successe a me, nella più nera delle crisi post adolescenziali, ritrovai una fioca luce di speranza nell’ascolto ripetuto di “Spirit of Eden“. In questo percorso di cambiamento, ho iniziato a scoprire che non ero da solo.

A 33 anni Mark Hollis era già anziano. Aveva sperimentato il successo e ne aveva subito quasi solo gli effetti negativi, la dipendenza dalle droghe e le aspettative di un pubblico e di un’etichetta discografica che non gli erano mai interessati più di tanto. Nel corso di soli tre album, i Talk Talk erano riusciti a imporsi come uno dei gruppi di punta del periodo post-new wave, passando dall’essere inizialmente considerati banali cloni (esteticamente meno presentabili) dei Duran Duran a ricavarsi, poi, una nicchia ben interessante con lavori ben più maturi come “It’s My Life e, soprattutto, “The Colour of Spring. La dimensione “live” pure aveva la sua importanza, come dimostrò il tour del 1986 in cui furono accompagnati da un notevole numero di musicisti ospiti. Pochi si aspettavano che sarebbe stata l’ultima occasione per la band di suonare dal vivo.

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Andando ad approfondire ancora di più le complesse tessiture sonore di “The Colour of Spring”, Mark ha trovato gli strumenti per iniziare il suo cammino spirituale, quello che, con i suoi giusti tempi, cambierà la storia del rock, introducendo per la prima volta il termine “post” (verrà usato in realtà per descrivere “Hex dei Bark Psychosis, ma insomma). Da novello Mosè, il suo spartiacque tra i due flutti di ciò che è venuto prima di e tutto ciò che è venuto dopo. Le sessioni furono il frutto di un lavoro di disfacimento e ricucitura interminabile, la dozzina di musicisti “ospiti” furono chiamati a improvvisare sui loro rispettivi strumenti, ignorando completamente il quadro generale, spesso immersi in un buio completo o con minime candele qui e lì. L’atmosfera disorientante e senza tempo fortemente voluta da Hollis e dal suo stretto collaboratore e produttore Tim Friese-Greene per lasciarsi indietro tutto ciò che in precedenza aveva influenzato il gruppo e la loro musica verso una certa egida di commercialità. Le interminabili sessioni di studio e il conseguente lavoro di taglia e cuci durarono un anno e mezzo, la tela di Penelope lasciò un gruppo completamente cambiato. Hollis dichiarerà, poi, di essersi curato dalla tossicodipendenza grazie al tempo speso su questo album. Non fatico a credergli.

Quel che più che colpisce, ancora oggi, di “Spirit of Eden“, coerentemente con quel che premeva maggiormente ai suoi creatori, è che l’estrema naturalità del processo di creazione e di registrazione si possa avvertire in maniera palpabile durante l’ascolto. E infatti così è, gli strumenti entrano e escono come fossero di passaggio, il silenzio è un elemento essenziale del lavoro in quasi ogni pezzo e la spazialità dei microfoni è talmente precisa da sembrare di essere al centro di una stanza circondati da gente che suona, senza che nessuno abbia un’idea precisa del percorso da fare (almeno immediatamente apparente). E’ una sorta di brodo primordiale da cui, in qualche modo, riesce a formarsi un nucleo possente di pezzi che sembrano a volte quasi esser formati da pensieri sfuggenti e impressioni fugaci, eppure dalla portata emotiva disorientante.

L’etichetta, che aveva permesso ampio budget e tempo a uno dei suoi gruppi di punta, restò di sasso dal prodotto finale; a peggiorare ancora le cose, la volontà del leader a non volere nessun singolo dall’album, poiché trattasi di esperienza da godere per intero, né a voler affrontare il grattacapo di ricreare l’esperienza dal vivo. Alla fine fu estratto come singolo I Believe in You, in versione editata e accompagnata da video musicale diretto da Tim Pope, entrambi francamente evitabili. Il rapporto con la EMI fu inevitabilmente rotto e la band continuò a inerpicarsi ancora di più sui percorsi di free jazz con il successivo “Laughing Stock”, il loro canto del cigno, uscito per la Polydor. Qui sarebbe facile incastonare la storia della band come una lotta sulla falsariga di “arte vs commercialità”, l’uomo geniale contro il sistema crudele, ma la realtà non era proprio così facile. Alla fine la EMI diede libero spazio a Hollis per fare ciò che voleva, così come la Polydor con un contratto più appetibile; il fatto che entrambi i loro ultimi lavori fossero poco commerciabili era un problema esclusivo delle due compagnie, né Hollis né i suoi collaboratori erano preoccupati della cosa. E difatti, proprio l’anno successivo molte etichette introdussero, per la prima volta, la famigerata clausola della “necessaria commerciabilità degli album” nei contratti fatti con i gruppi. Dunque, potremmo dire che in qualche modo la libertà artistica dei Talk Talk fu conquistata sì, ma al prezzo di perdere la guerra.

Da una parte probabilmente lo stesso Hollis esagera quando dice che questo è l’album che la band avrebbe sempre fatto se avesse avuto libertà artistica e budget ampio, ma di sicuro è facile sentirne l’arrivo nell’aria, vi basterà ascoltare le b-side dei vari singoli di “The Colour of Spring” (specialmente la splendidamente crepuscolare It’s Getting Late in the Evening), con sonorità già più meditabonde rispetto all’album, permeate da quello stesso spirito d’improvvisazione che pervade”Spirit of Eden“. La lezione di John Coltrane e Miles Davis rielaborata secondo una sensibilità alla Brian Eno e incanalata lungo una spirale rock anni settanta.

Le eventuali aspettative dell’ascoltatore da un album normalmente definito come “catartico” e “curativo” potrebbero essere comprensibilmente deviate verso la classica musica rilassante, da sottofondo, perfetta per lo yoga. Così non è. “Spirit of Eden” demanda la vostra attenzione ed è pronto a rimettervi in riga qualora sia necessario. Il blues spinoso di Desire ne è un ottimo esempio, nonché il crescendo tremendamente emotivo di Eden con Hollis che arriva a strillarvi nei timpani “Everybody needs someone to live by”. Se avete il vinile, fortunelli, perfino arrivare al lato B è difficile tale è la potenza stratosferica dei primi venti minuti. Chiamatelo post rock, chiamatelo cosmic jazz, è il risultato di un lavoro sopraffino, di un ordine perfetto nel caos, di un messaggio spirituale che travalica ogni possibile religione.

Come dicevo in apertura, “Spirit of Eden” cambiò la mia esistenza in uno dei periodi più bui, andando a tranquillizzarmi lì dove serviva e a castigarmi per la mia inutile voglia di un cambiamento che sarebbe dovuto venire necessariamente dall’interno. Mi costrinse a forzare i miei limiti, a cambiare un minimo la mia prospettiva verso il mondo, a comprendere che la bontà e il silenzio sono armi devastanti, se usate con giudizio. Non è un lavoro che possa lasciare passivi, siete costantemente attaccati e provocati, sta a voi decidere se lo strumento vi cambierà la vita o ve la sfiori solamente. E per quanto la citata storia sulla sua libertà artistica non sia poi così educativa come potrebbe sembrare, specie se cerchiamo una confortante narrativa in stile Davide arte vs Golia commercio, non posso che ringraziare Mark Hollis ogni giorno, ovunque egli sia.

Heaven bless you in your gentle calm, my friend. Heaven bless you.

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