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“Heartwork”, i Carcass e l’asportazione chirurgica dei sentimenti

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Il 18 ottobre 1993 i fan duri e puri dei Carcass furono costretti a inghiottire un boccone amaro: la brutalità grindcore delle origini, già abbondantemente messa all’angolo due anni prima nel magistrale “Necroticism – Descanting The Insalubrious”, venne letteralmente spazzata via dall’inaudita ondata melodica che trasformò “Heartwork”, il loro quarto lavoro in studio, in quanto di più accessibile mai pubblicato fino ad allora dalla band di Liverpool.

Galeotto fu l’accordo di distribuzione firmato tra la Earache e la major Columbia, che nei primi mesi del 1993 riuscì a mettere le mani su un bel gruppetto di talenti della piccola etichetta britannica (oltre ai Carcass vi rientrarono anche Fudge Tunnel, Godflesh ed Entombed) con la speranza di poterci tirare fuori la next big thing del rock alternativo. La storia ci insegna che le cose non andarono per nulla così – anzi, tanti artisti della prestigiosa scuderia death e grind di Nottingham ne uscirono con le ossa rotte. Ai Carcass, tuttavia, la possibilità di guadagnarsi qualche ascoltatore in più e aprirsi a una nuova fase stilistica meno intransigente andò immediatamente a genio.

Nessun tradimento ai danni della base underground, quindi: l’invito della Columbia ad alleggerire un po’ i toni fu accolto da Jeff Walker (basso e voce), Bill Steer (chitarra), Michael Amott (chitarra) e Ken Owen (batteria) come un’opportunità di crescita. E il bersaglio venne centrato in pieno, considerando il fatto che “Heartwork” è l’emblema stesso non solo della maturità dei Carcass, ma anche di tutto il filone melodico del death metal che in quel periodo prosperava rigoglioso tra le isole britanniche e la penisola scandinava.

Non fraintendetemi, però: non è che qui il quartetto di Liverpool provi a ripercorrere le orme pop di quei loro famosi concittadini cui immediatamente va il pensiero quando si legge la formula magica “il quartetto di Liverpool”. Più che di una svolta melodica si tratta di un’apertura a sfumature e sonorità ancora inesplorate; una decisione coraggiosa in grado di ritardare quel processo di decomposizione che i quattro sentivano avvicinarsi, nonostante la soddisfazione ancora recente per aver prodotto un caposaldo della musica estrema come “Necroticism – Descanting The Insalubrious”.

Direi che in “Heartwork” l’unica vera e propria rivoluzione riguarda l’introduzione di nuovi strumenti da lavoro con cui dissezionare i timpani degli ascoltatori. Non più la mannaia da macellaio impiegata nei violentissimi “Reek Of Putrefaction” e “Symphonies of Sickness”, bensì un bisturi con cui effettuare tagli di una precisione chirurgica all’interno del condotto uditivo. E tutto questo senza dover mai ricorrere all’anestesia: i passaggi più feroci di Carnal Forge e This Mortal Coil (che si apre con una bella mitragliata di blast beat old style) fanno sanguinare le orecchie anche oggi che sono vecchi di un quarto di secolo.

Ad aggiungere un bel carico di cattiveria all’opera ci pensa il solito Jeff Walker, che in “Heartwork” canta come un cane rabbioso che vomita bile e collera sul mondo intero. Un mondo che è fatto di “odio e dolore”: con questa osservazione parte la gelida Buried Dreams che, tanto per tornare alle già citate radici del Merseyside, cita apertamente i Beatles e la loro All You Need Is Love, il cui messaggio pacifista qui viene sepolto in un cimitero di sogni infranti: When expectations are quashed/When self esteem is lost/When ambition is mourned/All you need is hate.

Una delle caratteristiche principali dell’opera è la sua varietà: la scelta di rendere la propria musica fruibile a un pubblico più nutrito all’epoca stimolò non poco la creatività di Bill Steer, cervello pensante del gruppo. “Heartwork” si trasformò così in un incredibile manuale dell’elasticità e del camaleontismo del death metal; uno schiaffo in faccia a tutti coloro che lamentavano una certa ritrosia alla sperimentazione all’interno del genere.

In questi dieci brani convivono in putrescente armonia timidi richiami al groove metal più in voga (No Love Lost, Doctrinal Expletives), ultimi sparuti scampoli di ferocia grindcore (Arbeit Macht Fleisch) e belle mazzatone thrash (Blind Bleeding The Blind). A dirigere le danze con inarrivabile maestria le chitarre di Steer e Amott, probabilmente la migliore coppia di axe-men della storia del death metal: riffing di scuola New Wave of British Heavy Metal, armonizzazioni epiche e assolo da brividi consegnano alla gloria eterna capolavori come Death Certificate, Embodiment e l’indimenticabile title track, un classicone da infarto miocardico acuto. Un’opera di cuore che non può mancare in nessuna collezione di dischi metal che si rispetti.

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