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“Daydream Nation”, ovvero la quintessenza dell’underground

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Era il 2007 e i Sonic Youth festeggiavano il ventennale di “Daydream Nation” suonandolo per intero in un tour che li portò anche in Italia. All’epoca ascoltavo quasi solamente punk-rock, li avevo scoperti da poco e mi recai alla loro data di Ferrara più per una forma inconscia di riverenza lontana che per reale passione. Rimasi alla fine letteralmente travolto e conquistato da quell’ora e passa di un live sudato e massiccio come non mai, durante il quale si realizzava a più riprese una fusione miracolosa di baccano e armonia, rumore e canzone, un’operazione operazione punk ed avanguardistica che nella mia fin lì breve esperienza musicale non aveva alcun eguale.

Da lì in poi approfondii quasi maniacalmente la conoscenza del quartetto newyorchese, divorando ognuno dei capitoli della discografia lunga e sconfinata dei Sonic Youth, imparando a destreggiarmi tra gli alti e gli inevitabili bassi che si annidano in una produzione così corposa e di cui “Daydream Nation” è sicuramente il capitolo decisivo. Perchè non è solo un autentico spartiacque tra epoche, attitudini e stili di pensiero che ha segnato la storia del rock, ma è anche e soprattutto un’eredità enorme per generazioni di band che hanno fatto sì che quei suoni graffianti, sporchi e “scordati” – all’epoca dovevano apparire seriamente sconvenienti e rivoluzionari – oggi siano normalità.

I suoi monumentali 70 minuti sono il grido di un’America sotterranea che si affacciava ringhiando all’epilogo dell’era Reagan: rabbia e squilibrio convergono in un manifesto folle, una discesa angosciante verso l’abisso (“I wanted to know the exact dimensions of hell”) che mette in scena tanti picchi luminosi di creatività che hanno definito il concetto stesso di musica indipendente.

La Gioventù Sonica è la sintonia insensata tra i simbiotici approcci chitarristici di Lee Ranaldo e Thurston Moore, il primo intento a riprodurre con 6 corde ogni forma di rumore e disturbo dell’animo, il secondo a disegnare traiettorie melodiche incredibili. Ma è anche il basso contundente di Kim Gordon, la ritmica astiosa di Steve Shelley, le voci gelide e sbilenche incastonate in un caos armonico che traccia dopo traccia raggiunge una consapevolezza stilistica impensabile.

C’è tutto e c’è il contrario di tutto in “Daydream Nation”: pensate a come il power-pop micidiale dell’anthem Teen Age Riot – se cercate la perfezione nell’indie rock eccovi accontentati – si affianchi al vomito garage di Total Trash, o ancora a come ballate di psichedelia più o meno sottile (The Sprawl, Kissability) convivano pacificamente con muraglie insormontabili di chitarre dagli intenti poco benevoli (Silver Rocket, Rain King), in un ecosistema artistico che trova naturale sfogo in Trilogy, suite conclusiva imponente e allucinogena che, in quattordici minuti serrati e dissonanti suddivisi in tre differenti momenti, racchiude come in uno scrigno maledetto tutto il meglio della produzione musicale antagonista, dalla no-music all’hardcore, dalla new-wave al noise. 

Ecco, “Daydream Nation” era ai tempi una sorta di statuto fondativo di una generazione contro, che dal disagio aveva saputo estrarre gli elementi più stimolanti e creativi, plasmando una coscienza musicale e sociale nuova. Soprattutto, i Sonic Youth avevano alzato una barricata tra underground e mainstream mai così solida e invalicabile. E tutto questo rumore che divorava pian piano ogni forma di melodia fino a farla schiava e poi complice non poteva esserne dimostrazione migliore. 

Certo, oggi è triste pensare che tutta questa spinta rivoluzionaria, questo sentirsi perennemente in opposizione al nemico sia svanita nel nulla, dispersa nella miriade di frammenti in cui è ormai (s)composto l’universo indipendente, attratto e fagocitato nel vortice brillante del mercato. Ma proprio per questo dischi come “Daydream Nation“, dotati di un senso di contemporaneità assoluto, sono oggi ancora più importanti e andrebbero ascoltati e riascoltati fino allo stremo delle forze.  

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