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“Pretty Hate Machine”, la potenza dell’industrial svelata al mondo

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Quando si parla di un disco come “Pretty Hate Machine” bisogna prendere come riferimento alcuni importanti numeri. Questo è stato uno dei primi prodotti discografici “indipendenti” a vendere milioni di copie (3.000.000). A quei tempi, nel 1989, non accadeva spesso, e se succedeva, era per puro caso. Quando vi suggeriscono come questi numeri non contano più niente oggi vi dicono una sacrosanta verità, ma allora, nel precambriano del marketing musicale, influenzavano i giudizi di tutta quella masnada di critici cagauova. 

Tornando a “Pretty Hate Machine” dei Nine Inch Nails, in occasione del trentesimo anniversario dalla sua uscita, è importante fare una seria analisi. Ma quanto cazzo non è attuale adesso un disco come questo? Tanto, tantissimo! I segni del tempo sono tutti lì e anche lo stesso Reznor non ha perso occasione per sottolineare questo aspetto. D’altronde questo album è stato concepito con il liquido seminale residuo, pieno di difetti e storture, degli anni ‘80. Quella partita deve essere stata sequestrata perché i successivi lavori di Reznor hanno sparato alto e messo d’accordo più o meno tutti. Ci sono fondamentalmente due limiti imposti che hanno caratterizzato la sonorità di questo lavoro: il primo è la nota natura antisociale del suo ideatore; il secondo è la voce dello stesso Reznor, ruvida e piuttosto “povera”.

Come questi due limiti siano riusciti a influenzare “Pretty Hate Machine” è ben evidente in pezzi come Sanctified. Il brano è tenuto a galla da una sezione ritmica che regala una buona profondità ai 5 minuti di esecuzione. Reznor è fuori luogo in un pezzo dall’andamento quasi funky, la sua voce a un tratto diventa troppo imponente rispetto a tutto il resto. Chiari problemi di bilanciamento trasformano un gran bel pezzo in qualcosa di meno apprezzabile. Il giovane Trent ai tempi era un inesperto inserviente che lavorava in una casa discografica. A quel punto, anche solo registrare un disco tutto da solo poteva sembrare una follia poco lucida. In definitiva è proprio questo che è “Pretty Hate Machine”.

Se il prodotto è cresciuto nel tempo è soprattutto per merito di quello che è venuto dopo, ma quello che è accaduto è una gran cosa. I Nine Inch Nails sono risaliti in superficie e hanno permesso a tante altre apprezzabili realtà dell’industrial di accodarsi. Tutto, quindi, è iniziato da Down In It ed è continuato grazie a Head Like A Hole. Si tratta di prodotti prematuri che pagano ancora il debito all’overdose sintetica della seconda metà degli anni ‘80. Ma è già presente l’inchiostro per quello che sarà il marchio posto poi su “The Downward Spiral”. Reznor portò avanti tutto in maniera molto inconscia, consapevole del fatto che un materiale tanto eterogeneo avrebbe potuto confondere le idee alla critica. Quando il disco andò a ruba in tutto il mondo, più o meno dopo la pubblicazione di Head Like A Hole, molti gridarono al miracolo. Furono tutti accecati da questa precisa commistione tra linguaggio puramente eighties e potenza metal.

Solo gli eventi, forse, sono stati in grado di rimescolare ancora una volta le carte. “Pretty Hate Machine”, infatti, si muoveva su quell’imperfetto equilibrio tra distacco, freddo e imparziale, della new wave, e primordiale violenza metal. Era una parte del prodotto che l’inesperto Trent aveva in mente. Il resto lo ha fatto l’infatuazione verso i synth e i pochi mezzi a disposizione. Uno dei brani più apprezzati del disco fu Something I Can Never Have. Un pezzo che non ha nulla a che fare con quello che troviamo su tutto il resto, ma che mette a nudo l’anima piuttosto dark e pessimista di questo incredibile talento. Sono le stesse stimmate che stavano influenzando i figli deformi del punk di fine anni ‘80. Proprio in ragione dell’esplosione di questo fenomeno endemico nella west coast i NIN continuarono su un sentiero più elettronico, mettendo in secondo piano tutto il resto. Da questo lavoro sono ripresi due dei capolavori massimi dell’intera discografia dei Nine Inch Nails: Terrible Lie e Sin. I brani sono sempre riproposti dal vivo durante ogni singolo tour e Reznor riesce a cantarli con la stessa potenza di allora.

La voce di Reznor non manca di potenza ma ha un range piuttosto limitato. Questo potrebbe portare a pensare che, a forza di arrivare oltre i 3000 giri senza cambiare marcia, prima o poi salterà qualche bullone. Fino a oggi, tuttavia, nulla di questo è successo. Il figlio di puttana di Mercer dà l’acqua a tutta una generazione di sfiatati seguiti da un pubblico di sordi. “Pretty Hate Machine” è stato il colpo di culo del principiante che realizza il sogno americano dopo aver patito parecchio? Forse. Fatto sta che io disco è rispettato ancora oggi anche se non è più attuale. Dalla vena d’oro sono state estratte pepite belle grosse (Head Like A Hole e Sin su tutte), ma ormai tutto è fermo e questo gioiello fa bella mostra di sé come fosse un quadro in un museo.

Forse ha rappresentato una delle sincere, ultime novità nell’ambito della musica rock e ha contribuito a lanciare un talento infinito che ancora oggi ci regala tante soddisfazioni. È l’inizio ed è perfetto per chi sceglie di ripercorrere un po’ di storia dell’industrial, di capirne lo sviluppo e di conoscerne lo stato attuale.

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