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Emma Ruth Rundle – On Dark Horses

2018 - Sargent House
folk noir / shoegaze

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Tracklist

1. Fever Dreams
2. Control
3. Darkhorse
4. Races
5. Dead Set Eyes
6. Light Song
7. Apathy On The Indiana Border
8. You Don'Have To Cry


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Ho appena visto un robot posticcio intervistare Emma Ruth Rundle nel quinto episodio di quella deliziosa stronzata che è “Two Minutes To Late Night” – late show autoprodotto da una masnada di scellerati ad uso e consumo di metallari che finalmente possono godersi il momento in cui il loro genere preferito è diventato una moda – e credo di non potermi permettere di affrontare con serietà la stesura della recensione di “On Dark Horses”, eppure ne servirebbe, poiché il quinto album in studio di questa splendida artista è qualcosa di profondo come il più buio dei luoghi che si annidano nell’anima del più oscuro degli spettri, che di per sé è già una sorta di spirito, ma sto sproloquiando.

Per tornare sul tema principale, se Marnie Stern costituisce per me il miglior esempio di guitar woman sul versante math/indie/rock psichedelisbiellato, e se Chelsea Wolfe deteneva il trono di Nostra Signora dell’Oscurità fino alla sua, a mio avviso, inconsistente deriva metallara (con l’eccezione tutta italiana di Lili Refrain) è il caso di dire che Emma Ruth ci siede ad oggi e poggia pure le scarpe dove nessuno ha osato prima, ma fondamentalmente lo fa solo con questo disco. Per carità, nulla da eccepire sugli inizi tortuosi a là Frisell dei tempi matti e del Fripp che ben conosciamo (con quel tocco a là Westerhus che non guasta), e nemmanco a quelli più recenti in cui il noir folk faceva gli onori di casa ma “On Dark Horses” è un passo in avanti, e nemmeno in punta di piedi, facciamo che dire un balzo in piena regola.

Se mi chiedeste di classificarne il lavoro mi troverei in difficoltà ma il sound che battezza gli otto brani qui contenuti ha qualcosa della polvere alzata dagli Earth, pur senza toccarne nemmeno lontanamente il corpus, solo lo scenario è davvero assimilabile a quello dell’immensa creatura di Dylan Carlson – giocoforza la Nostra sta anche sul suo solista di qualche mese fa – e da essa prende tutto il tetro incedere gotico che dell’Americana si veste in occasione di un funebre assalto alla diligenza di un songwriting ormai spogliato di qualsiasi cosa possa ritenersi rock o qualche suo derivato, ma che in fin dei conti rientra da una finestra shoegaze spalancata su montagne d’ossidiana.

Le chitarre si fanno rutilanti e non più flebili o taglienti, riempiono l’inquadratura per intero (come nel caso di Carlson) e anziché prendere forma la perdono, fondendosi staccandosi solo di rado per definirsi in laccate tinture di nero seppia e il lavoro di ERR e dell’altro chitarrista Evan Patterson è di quelli di fino, e quando una delle due sei corde svuota gli spazi del riverbero che fino a poco prima dilatava il brano si sente e l’altra finisce per svettare costruendo impalcature immarcescibili e al contempo impietosamente decadenti.

La voce di Emma è poi qualcosa che tocca il punto più lontano dello struggersi in un eterno rimpianto senza fine in ritorno circolare, schiacciando al suo interno tanto Kate Bush quanto Jarboe pur senza somigliando né all’una né all’altra, perché se c’è una cosa che colpisce al volto più di tutte è come questo timbro e il suo trascinarsi tra uno scenario e l’altro sia difficile da ascrivere a qualcun’altra, è suo e suo soltanto. Certo è che su Dead Set Eyes pare davvero di sentire un’Alanis Morrisette (mi assumo ogni responsabilità) totalmente immersa nella pece e nel buio di una stanza in cui a danzare non sono le particelle di luce residua ma ombre avvolgenti.

Se c’è uno spazio vuoto nel cuore di chiunque ascolti, questo non è il disco per colmarlo. Per allargarlo sì, questo è poco ma sicuro.

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