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WU-TANG CLAN: 25 anni all’ombra della Fenice

“Shaolin shadowboxing and the Wu-Tang sword style. If what you say is true, the Shaolin and the Wu-Tang could be dangerous. Do you think your Wu-Tang sword can defeat me…? EN GARDE! I’ll let you try my Wu-Tang style…”

9 Novembre 1993: la cultura hip hop fu travolta da un terremoto destinato a cambiarne per sempre la fisionomia. L’epicentro di tale poderoso sisma fu individuato a Staten Island, New York. Gli artefici in nove loschi figuri con la fissa dei b-movie sulle arti marziali. Mai più quella che era ormai la musica prediletta dei cinque borghi, avrebbe conosciuto ancora un’età dorata tanto prolifica. Sembrava che ogni disco in uscita fosse destinato a diventare un classico, ce ne si potesse tranquillamente fregare delle logiche del mercato e andare in rotazione su MTV esprimendo la propria creatività a briglie sciolte, avviando business milionari raccontando quelle strade tenute a debita distanza dai riflettori di Hollywood. Poco importava che sulla costa opposta si ballasse quasi esclusivamente al ritmo dei brani di Dr Dre e Snoop Doggy Dogg: per gli amanti del sound più ricercato la Grande Mela rimaneva il place to be.

Purtroppo non tutti ebbero fortuna. Album splendidi e di conseguenza i loro autori caddero nel dimenticatoio piuttosto in fretta. Il grande tritacarne dell’industria discografica mostrò presto i propri affilatissimi denti senza fare prigionieri. Per sopravvivere era necessario essere il più spregiudicati possibile. Una formazione tanto ampia che sul palco si muoveva come un sol uomo, pur mantenendo ognuno il proprio stile caratteristico, non si era mai vista. Legare un’immagine di per sé già così forte a una narrazione in cui la filosofia orientale veniva applicata alla difficile vita dei ghetti, dava al tutto una forte connotazione cinematografica. Ogni brand di successo ha inoltre bisogno di un logo inconfondibile e immediatamente riconoscibile: ecco quindi comparire quella W che di lì a poco, sarebbe diventata l’icona più famosa nella storia del rap.

Nel segno della migliore consuetudine affaristica che lega il merchandising a una serie televisiva, ogni ragazzino d’America si ritrovò a poter avere il proprio eroe preferito. C’era RZA, sorta di guida spirituale del gruppo, oltre che autore di tutte le musiche e coordinatore dell’intera operazione. The Genius/GZA, veterano con già uno sfortunato benché valido album alle spalle, il più lirico tra tutti. Ol’ Dirty Bastard, una vera mina vagante. Method Man e Ghostface Killah, due fuoriclasse, campioni di stile e flow. Raekwon The Chef e Inspectah Dock, balordi di strada in cerca della redenzione attraverso la musica. Infine il baritonale U-God e il novellino Masta Killa, forse dotati di personalità meno ingombranti rispetto ai loro soci ma che nell’insieme, trovavano tutte le proprie ragioni d’essere.

Rimbalzata da più parti perché ritenuta troppo difficile da commerciare, nel 1992 la crew di Staten Island optò per l’autoproduzione del primo singolo Protect Ya Neck. Leggenda vuole che RZA abbia chiesto a ogni componente 100 dollari con la promessa di portarli ai vertici del music business di lì a cinque anni. Comunque siano andate le cose, sta di fatto che le vendite superarono le diecimila copie convincendo la Loud Records a mettere i nove sotto contratto. Con un’importante clausola: sebbene come collettivo sarebbero rimasti legati all’etichetta, individualmente avrebbero potuto muoversi come meglio credessero. Il preludio a un’ondata di pubblicazioni che oltre che nel mondo della musica, avrebbe trovato sbocchi significativi anche in quelli del cinema, delle arti grafiche e della moda.

Wu-Tang Clan – Enter the Wu-Tang (36 Chambers)

(Loud Records, 1993)

Risulta assai difficile credere il Clan abbia mai avuto detrattori tra gli affezionati del genere ma caso mai esistessero è tempo si mettano il cuore in pace: in un’ipotetica top ten dei dischi più belli, innovativi e influenti nella storia dell’hip hop, questo è destinato a comparire fino alla fine dei secoli. L’attitudine hardcore del collettivo appariva da subito in netta antitesi con l’atmosfera gigiona e festaiola che si respirava in California. Pur garantendo al gruppo la massima libertà creativa, la Loud badò a spese relegandolo in uno studio a buon mercato. Ciò contribuì a forgiare l’estetica lo-fi dell’album, dal suono sporco delle basi alle strofe spesso registrate da più membri nello stesso momento. Era come se ogni mediazione tra la strada e lo studio fosse ridotta al minimo: ascoltando tracce corali come Bring Da Ruckus e Da Mistery Of Chessboxin’, si ha la sensazione di trovarsi a non più di un metro dagli mc intenti a scambiarsi rime stando in cerchio. RZA non si limitò a campionare vecchi vinili soul e funk ma diede al tutto un taglio estremamente personale, integrando con suoni che sanno inevitabilmente di oriente misterioso e una moltitudine di dialoghi e rumori di combattimento estrapolati da vecchi film sul kung fu. Una visione d’insieme quasi morriconiana e infatti negli anni a venire, il producer sarebbe stato chiamato a musicare le opere di svariati registi (non ultimo Quentin Tarantino). Tra puro intrattenimento (Shame On A Nigga, Method Man) e crudi spaccati di vita vissuta (C.R.E.A.M., Tearz), ogni voce seppe sfruttare al meglio lo spazio a sua disposizione, incidendo barre destinate a essere citate in innumerevoli tracce altrui. Un classico senza tempo che ha plasmato il gusto di più di una generazione.

Gravediggaz – 6 Feet Deep

(Gee Street/ Island/ Polygram, 1994)

Il grande dimenticato della prima tornata di progetti collaterali al Clan è questo gioiello che vede RZA affiancare Prince Paul, altro innovatore indiscusso dell’arte del beatmaking (tra le altre cose curatore dei primi successi dei De La Soul). Con due misconosciuti ma evidentemente talentuosi mc, Fruitkwan e Poetic, a completare la formazione, “6 Feet Deep” è effettivamente altro dalle atmosfere Shaolin dei primi lavori su cui campeggiava la grande W. I morti di cui si profanano le tombe qui vanno intesi in senso cerebrale e spirituale, anestetizzati dalla routine e dalle distrazioni della civiltà dei consumi. Horrorcore sì, ma con un sacco di senso dell’umorismo. Con Paul ad accollarsi la maggior parte delle stesure musicali, The Rzarecta può concentrarsi sulla sua mai troppo lodata verve lirica, fornendo incastri pregni di forza immaginifica – va da sé, macabra – e doppi sensi. Non sono certo da meno gli altri due partner in crime, impegnati a sdrammatizzare argomenti seri come l’ecatombe di neri a causa dell’abuso di sostanze (Nowhere To Run, Nowhere To Hide), il suicidio (1-800 Suicide) o imbastire riuscitissimi siparietti teatrali come il processo inscenato in Diary Of A Madman. Non mancano certo i pezzi atti a fare ondeggiare mani e teste alle folle, su tutte Graveyard Chamber e – appunto – Bang Your Head. Tra le uscite più originali del periodo, da recuperare senza se né ma.

Method Man – Tical

(Def Jam, 1994)

Definito dallo stesso autore come “un lavoro affrettato”, riascoltandolo sorge effettivamente il dubbio sia stato dettato più dall’esigenza di battere il ferro finché era caldo che da altro. Pur regalando due momenti indimenticabili come Bring The Pain e Release Yo’ Delf, che parodia in modo assai divertente il ritornello di I Will Survive di Gloria Gaynor, la prima avventura in solitaria di Mr. Mef suona alquanto raffazzonata. Già il fatto che il remix di Method Man sia identico a quello comparso come bonus track sull’esordio del Clan e due tracce su quattordici (All I Need e la versione alternativa I’ll Be There For You, col featuring di Mary J. Blige) si avvalgano del medesimo campione potrebbe far storcere il naso. A fare veramente specie però è che una base stupenda come quella di What The Blood Clot, venga sprecata dal titolare per mandare saluti in giro anziché dare una delle sue superlative dimostrazioni di flow. Non che il resto sia tutto da buttare via: il duello a colpi di rime con Raekwon di Meth vs Chef e la minacciosissima posse track Mr. Sandman sono momenti che qualunque fan non può che conservare gelosamente nel proprio cuore. Allungare il brodo con svariati riempitivi in un dischetto di poco più di quaranta minuti però non ha molto senso, specie se in cabina di regia c’è un RZA al massimo della forma. Ciò non impedirà al Ticallion Stallion – il conto dei suoi pseudonimi si è perso da tempo – di accaparrarsi il quarto posto nella classifica di Billboard, divenendo una presenza irrinunciabile in quasi tutti i lavori che aspirassero al disco di platino. Tra le altre cose, fu uno dei pochi – se non l’unico – rapper a collaborare con 2Pac e B.I.G. mentre erano ancora entrambi al mondo. Purtroppo quella di non riuscire a regalare ai suoi estimatori un disco convincente dall’inizio alla fine, eccezion fatta per Blackout!, realizzato nel 1999 in coppia con Redman, si rivelerà una costante della sua carriera.

Ol’ Dirty Bastard – Return To The 36 Chambers: The Dirty Version

(Elektra, 1995)

Distintosi da subito come il membro più schizzato e goliardico della compagine newyorkese, oltre a regalare ai dj di tutto il mondo un evergreen come Shimmy Shimmy Ya, nel suo primo album O.D.B. delinea assai nitidamente la sua figura di simpatico pazzoide. Campione di ubriachezza molesta e rime sconce, non lesina anche momenti di follia pura come l’interminabile Intro in cui simula un’orazione pubblica in evidente stato di alterazione o Drunk Game (Sweet Sugar Pie), amabile presa in giro dell’RnB più zuccheroso a colpi di canto stonato, pianti improvvisi e…gargarismi. Accompagnato oltre che dagli affiliati al gruppo principale dalla crew del Brooklyn Zoo – ça va sans dire: tutti brutti, sporchi e cattivi -, Dirt McGirt mise insieme quella che è probabilmente la raccolta di tracce più hardcore dalla fondazione del Clan. Sia nella forma che nella sostanza: pezzi imperdibili come Raw Hide, Damage e Snakes, risultano veramente al minimo della pulizia sonora, alquanto anomalo per una produzione ad alto budget. Ad ogni modo sia l’autore che il disco vanno presi così come sono: nudi e crudi senza compromessi. Decisamente non per tutti.

Chef Raekwon – Only Built 4 Cuban Linx…

(Loud Records, 1995)

Inseritosi di prepotenza tra le opere più creative e meglio realizzate del filone gangsta rap, l’esordio sulla lunga distanza dello Chef è un’opera estremamente articolata e sfaccettata. Ispirato dal capolavoro di Sergio Leone “C’era una volta in America”, di cui campiona a più riprese anche la colonna sonora, vede il collettivo vestire i panni di una cosca mafiosa, i Wu-Gambinos della traccia omonima, preferendo in svariati passaggi la recitazione vera e propria alle rime. Musicalmente rappresenta il conseguimento della piena maturazione di RZA, che imbastisce trame e commenti sonori sempre più elaborati ed evocativi. Il nome di Ghostface posto al di sotto di quello del titolare in copertina non è certo casuale: l’artista presenzia in quasi tutte le tracce, spiccando come uno dei componenti tecnicamente e liricamente più dotati. L’album costituì inoltre il primo importante banco di prova per Cappadonna, a tutti gli effetti decimo membro del Clan ma che durante le registrazioni di “Enter The Wu-Tang” si trovava dietro le sbarre. A scorrere la tracklist c’è veramente l’imbarazzo della scelta: l’ipnotica Guilotine (Swordz), la maestosa Criminology, la sinuosa Ice Cream oVerbal Intercourse, irresistibilmente jazzata e impreziosita da un cameo di Nas, sono tutti pezzi da novanta. Il ricorso a un immaginario criminale non era certo una novità nell’ambiente, raramente però progetti tanto ambiziosi (a tutti gli effetti è un concept album) sono stati realizzati con altrettanto mestiere. Da notare come il ricorso piuttosto forzato a termini italiani, possa produrre effetti esilaranti nei parlanti nativi. La durata elevata potrebbe scoraggiare gli ascoltatori meno smaliziati tuttavia, l’influenza di questa pantomima magnificamente orchestrata sul rap venuto dopo si sta dimostrando incredibilmente duratura (ascoltare i recenti album targati Griselda Records per credere).

Genius/Gza – Liquid Swords

(Geffen, 1995)

E qui siamo veramente al capolavoro tra i capolavori. Abbracciando pienamente il parallelo tra rap e arti marziali, The Genius si erse a salvatore della cultura hip hop che assai avvedutamente, vedeva ormai prossima a essere fagocitata e diluita dal sistema. Con la maturità che ben si confà al membro più anziano del Clan, nonché il consueto e sapientissimo ricorso alla fiction, GZA verga liriche assassine in cui l’arte della metafora viene affilata e spinta ai massimi livelli. In bilico tra storytelling da romanziere navigato e invettive polemiche raffinate e ironiche, sorretto da un comparto musicale di altissimo livello a firma del solito RZA che oltre che coi campioni iniziava a giocare anche coi synth (si prenda ad esempio 4th Chamber), non poteva certo fallire. Un flusso torrenziale di allegorie e citazioni che richiedono un’esegesi attenta e consapevole per essere colte. Una sceneggiatura avvincente che proietta nella mente dell’ascoltatore un vero e proprio film mentale. Nella trama che va svelandosi, tutte le canzoni sono indissolubilmente legate una all’altra, fino a giungere al climax finale di B.I.B.L.E. (Basic Instructions Before Leaving Earth), affidata in toto ad un allora esordiente Killah Priest, tra gli affiliati che avrebbero dato maggiori soddisfazioni in futuro. Un lavoro incredibilmente solido e coeso, giustamente indicato da più parti tra i migliori dischi rap di tutti i tempi.

Ghostface Killah – Ironman

(Epic, 1996)

Ghostface è sicuramente l’esponente più prolifico dell’allegra brigata di Staten Island: quasi un album all’anno dal 2000 a oggi senza contare la valanga di mixtape, progetti collaborativi e ospitate su dischi altrui. La cosa incredibile è che mentre la qualità complessiva dei lavori degli altri membri con gli anni è andata via via abbassandosi, i suoi risultati si attestano sempre su livelli medio/alti: basti un ascolto al recentissimo “The Lost Tapes” per fugare ogni dubbio a riguardo. Segnali di iperattività giungevano già dalla sua prima prova sulla lunga distanza: sedici tracce talmente ben realizzate che diventa difficile fare una cernita. Decisamente meno cupo dei suoi predecessori, affianca al ricordo di un’infanzia passata in seno a una famiglia molto povera, una sequela di esercizi di stile estremamente vivaci e musicali. “Ironman” offre rari esempi di come si possano ammorbidire i toni senza scadere nel posticcio e nel patetico, senza lesinare sul racconto di vite criminali e le classiche trovate auto celebrative. Caratterizzato da una forte impronta blaxploitation, è forse il più accessibile di questa prima infornata di lavori targati Wu-Tang.

Con l’uscita nel 1997 del mastodontico quadruplo LP (doppio CD) “Wu-Tang Forever”, il primo cerchio poteva considerarsi chiuso e la promessa di RZA mantenuta. L’aura mistica sprigionata dal Wu-Tang Clan aveva stregato e stuzzicato la fantasia di milioni di ascoltatori, creando una sottocultura nella sottocultura. Un culto che sopravvive al susseguirsi delle mode e delle generazioni sebbene da anni non dia più segni di vitalità. La fama della crew rimane soprattutto legata all’exploit irripetibile di questa prima metà degli anni ’90, incredibilmente longeva per un genere soggetto a cambi di tendenza tanto repentini. Un giro d’affari milionario rimasto – almeno parzialmente – in piedi nonostante lutti (O.D.B., scomparso nel 2004), liti tra i membri, un crollo verticale dei livelli d’ispirazione e un mercato orientato decisamente altrove. Riuscire in un’impresa tanto ambiziosa non poteva che renderla leggendaria.

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