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“Americana” degli Offspring: un disco generazionale

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Mai piaciuti gli Offspring. O forse solo “Ixnay On The Hombre”, ma un disco è troppo poco per apprezzare in toto una band. Allora perché scriverne? Non è chiaro nemmeno a me mentre butto giù queste tre righe d’introduzione all’articolo, o meglio, il perché in fondo lo so. Al telefono con una mia amica ragionavo sul fatto che…cazzo, sono già passati davvero più di vent’anni dall’uscita di “Americana”? Sul serio? Che shock.

Eravamo piccoli e i nostri gusti erano diversi, forse più intransigenti (come se fosse cambiato qualcosa…) eppure quell’album segnò l’epoca. Di certo fu uno dei tanti simboli chiave di una generazione alternativa ad MTV che però MTV la guardava, ci stava sintonizzata di continuo, vuoi la noia dei pomeriggi, vuoi l’assenza di qualsiasi altro mezzo di comunicazione musicale di massa. Intanto a nessuno sfuggì l’heavy rotation infernale di Pretty Fly, e il riff di chitarra che ti si stampa in testa inesorabilmente e non lascia scampo, la voce di Dexter Holland al limite del fastidio che però funziona, e parecchio.

Gli Offspring sono stati davvero una band se non antesignana poco ci manca di quell’hc melodico che imperversò sul finire degli anni ’80 e che nel decennio successivo si prese il suo bel posto al sole diventando un cliché che ancora oggi non si muove di un millimetro. Per non finire tritati dalla sontuosa concorrenza alla quale non potevano nemmeno lustrare le scarpe – nonostante il debutto omonimo, “Ignition” e “Smash” siano tre gradevoli dischi di genere – i quattro californiani si diedero alla faciloneria, e furono bravissimi. “Ixnay” fu l’inizio di tutto ma ancora era il tipico piede in due scarpe, “Americana” completò l’opera e sancì i timori del venir tritati lanciando però la band nell’universo di quelli che contano, dei punk che ce l’hanno fatta e quindi, inevitabilmente, trattati alla stregua di traditori della causa. Canzonati da chiunque vedesse nelle stamberghe l’unico luogo utile per suonare hc e presi sotto l’ala protettrice degli altri che volevano differire non differendo dalla massa che definirò “Generazione American Pie”, gli Offspring vendettero una tonnellata di copie del loro quinto album. Una maturità ottenuta a colpi di gran furbizia. Né carne né pesce, e “Americana” è lì per dimostrarlo, ad imperitura memoria.

Offspring americana

Ricordo ancora le giornate passate a litigare col mio migliore amico, super fan del gruppo, su quanta pochezza sentivo in quei brani, su quanto mi facesse inferocire il tizio dei video di Pretty Fly e Why Don’t You Get A Job e il modo in cui questi trattassero la materia. Il tutto mentre in un negoziaccio dell’usato entrambi compravamo la cassetta di “Ixnay”, doppia copia dimenticata da chissà quanto tempo, e qualche giorno più tardi acquisivo anche io “Americana”, perché avevo le mani bucate e dovevo capire a fondo la faccenda, non fosse che poi lo vendetti poco tempo dopo. La cosa che mi diede più noia fu che, al di là delle hit, il resto mostrava ancora quell’attitude punk rock necessaria a nascondere il cambio di casacca e con i ripetuti ascolti mi resi conto che i pezzi che funzionavano di più erano quelli non-punk. Follia. Holland e Wasserman/Noodles sapevano il fatto loro, e quando viravano sul rock ottenevano qualcosa e più di uno skater se li ficcò nelle orecchie tra un backflip e l’altro, quando dimenticavano di essere stati hardcore facevano muovere la macchina in direzioni giuste, ma erano sempre in un mezzo di nulla: non erano cazzoni come i Blink, i Green Day e i NoFx, non erano seriosi come i Rancid o violenti come gli Exploited, ma stazionavano nella terra di nessuno, indecisi. Una cosa è sicura: erano meglio degli Zebrahead (però “Playmate Of The Year” ce l’ho ancora, per motivi puramente musicali, ovviamente, mhmh).

Così, pezzi come Feelings ed Have You Ever perdevano di significato sotto coretti e ritmi riconducibili altrove, tipo She’s Got Issues che fa paio con le robe pop punk dei Bloodhound Gang – altra band di gran lunga più decisa sulla propria natura – ma quel ritornello finisce nuovamente incollato in testa e il furore superMtv della title track e il rifferama mediorientale e killer di Pay The Man mi fece bene, esaurendo in poco più di 10 minuti l’interesse generale per l’album.

Poi uscì “Conspiracy Of One” e nonostante tutto, nonostante gli Offspring avessero finalmente scelto in via definitiva la propria fazione si videro ben presto dimenticati già nel 2003. E se oggi uno va a vederli dal vivo mal che vada sentirà la nostalgia canaglia e attenderà quei singoli, i pezzi vecchi, perché vi sfido a ricordarvi una canzone una dagli altri dischi.

Eppure ha più di 20 anni. Eppure fu generazionale, tanto nei contenuti quanto nell’orrida copertina che scoprii anni dopo essere a firma di quel Frank Kozik che battezzò quella di “Houdini” dei Melvins. Nonostante fosse un disco da nulla si erse sopra gli altri, sempre sgomitando per l’indecisione di cui sopra. Non vi sembra assurdo? A me sì e rimettendolo su provo le stesse identiche cose di una volta: un misto di fastidio e impossibilità di dimenticarne i singoli. Il tempo a volte è tutt’altro che galantuomo, anche se alla fine il refrain di Pretty Fly (sì, ancora lei) lo sappiamo e canticchiamo tutti, se ripassa da qualche stereo. Maledizione.

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