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Thomas Giles – Don’t Touch The Outside

2018 - Sumerian Records
prog rock / synth pop / elettronica

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Tracklist

1. Church Friends
2. Incomplet
3. Milan (feat. Kristoffer Rygg)
4. Radiate
5. Everyone is Everywhere (feat. Einar Solberg)
6. I Win (feat. Carley Coma)
7. Awake From Death
8. Sway
9. Mr. Sunshine
10. Weather Moods/Panic Start
11. Take Your Seats, Time Gentlemen
12. 1709
13. Exordium


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Come ho già spesso ripetuto ci va del bello e del buono per farmi ascoltare (o anche solo interessare) ad un disco di matrice prog che sia uscito dopo il 1979, ma le mie prolusioni sui Between The Buried And Me e annesso loro nuovo album bipartito narrano una storia leggermente diversa, una storia tale per cui loro sono la chiave per farmi aprire quei benedetti album a loro legati.

Non fa infatti differenza (semmai è proprio quello il punto chiave) il nome di Thomas Giles. All’anagrafe Thomas Giles Rogers Jr., il polistrumentista – ancorché di base cantante/tastierista – è il motore dei BTBAM, o mastermind o come preferite chiamare i tizi che di buona lena scrivono tutto in maniera eccelsa all’interno di una band e, non paghi di ciò, si mettono pure ad interpretare il tutto in maniera vieppiù sopraffina (e con questo non tolgo nulla di nulla a tutti gli altri componenti della band, tutt’altro).

Libero dal fardello dell’estetica di gruppo Giles trova di nuovo conforto espressivo nel suo quarto lavoro in studio autografo e della sua creatura prende i bordi più estremi tirandone le fila arrivando ad altri confini. Più leggeri non saprei dirvi, di certo differenti. L’evoluzione sonora del Nostro è totalmente in linea coi lavori precedenti ma se ne discosta per ampiezza di spettro e per gusto anti-immobilista. Difatti se il precedente “Velcro Kid” si snodava in pratica solo ed esclusivamente in territori sintetici qui la faccenda si fa decisamente più golosa. “Don’t Touch The Outside” dà l’impressione di essere un compendio multiforma del gusto estetico-musicale di Thomas, il che porta alla naturale conclusione che un full-lenght con siffatte premesse sia una sorta di laico sinodo di preferenze ed espressioni tra le più disparate che qui confluiscono in un unico letto di fiume. Così è, se vi piace.

O per meglio dire se vi piacciono un sacco di altri generi musicali oltre alle progressioni poiché – sempre per dovere giornalistico – dobbiamo infine etichettare un lavoro, qui ci sarebbe da spenderci fin troppo spazio, seppur in effetti dal prog tutto nasca e nel prog tutto si perda. Tutto modo il bello è sempre non riuscire ad inquadrare facilmente le intenzioni di un artista (e quest’anno è già capitato con quell’altro matto di Toby Driver) e direi che da queste parti il livello di difficoltà sia piuttosto alto, un po’ come negli anni ci ha abituato Devin Townsend.

A differenza del divin Devin – che già contribuì nel predecessore – Giles ha un’attitudine ancor più moderna, forse più presente che futurista, ciò nondimeno pressante e rigogliosa. Così al fianco di strutture chitarristiche acidamente barocche e sviluppate secondo i canoni dettati da Adrian Belew (Incomplet) troverete chicche di splendido pop anni ’80 con tanto di ritmiche spezzate in levare rese arcigne da vocalità e melodie orrorifiche che forse avrebbe dovuto sviluppare meglio il compagno di etichetta Jonathan Davis (Church Friends), marcette vaudeville RIO con un occhio di riguardo agli Sleepytime Gorilla Musem (Take Your Seats, Time Gentlemen), ballad elettrogene incanalate da filtri ed inviluppi bladerunneriani (Radiate), pop rock mutato dub/reggae (Sway) ed ambience noise spezzate da piano e metalli assortiti che si tramutano lunaticamente in assalti metal inferociti (Weather Moods/Panic Start).

Ad alzare ulteriormente l’asticella già posta ben in alto arrivano le inevitabili collaborazioni. Krystoffer Rygg, al secolo conosciuto come Garm degli Ulver, fa la sua comparsa nel sontuoso poppeggiare sixties della morbida Milan e contrappunta Thomas a piena voce distorta e con cori inarrivabili (pun intended se l’avete visto dal vivo, scusa Garm); Carley Coma, già frontman dei Candiria, agguanta il microfono sull’illbient hip hop omicida di I Win e si lancia in barre sanguinolente alla maniere dei veri newyorkesi d’assalto rap; chiude il capitolo a parte l’omologo nei Leprous Einar Solberg nelle sferzate eighties/industrial rock di Everyone Is Everywhere, un luogo-non luogo in cui non l’avremmo mai immaginato.

Più che un fiume un mare in tempesta, con tanta (ma mai troppa) roba da far ammattire il più cerebrale dei cerebrali. Ma non difficile, quello no, piuttosto è il disco più fruibilmente impegnativo che ci si potesse aspettare da Thomas Giles. Dritto dritto nella top ten di fine anno.

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