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“Alice In Chains”, è la fine la più importante

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“Io ho il cd con la custodia verde e l’interno viola”.

“Io ho l’altro: viola e dentro verde. Che è quello INTROVABILE”.

“Ma và, sono uscite in egual numero, nessuno dei due è introvabile”.

“Sarà, ma io quello viola l’ho visto solo UNA VOLTA a Milano da Steve”.

“E l’hai preso lì?”

“No, io l’ho preso da Psycho”.

“Allora vedi che non è introvabile!”

“Intendevo OLTRE al mio, l’ho visto solo quella volta LÌ”.

Queste erano le conversazioni  all’uscita di “Alice In Chains“, perché non era proprio facile parlarne, era troppo chiaro il messaggio che sarebbe stato l’ultimo lavoro di quel gruppo per come lo avevamo conosciuto fino ad allora. Eravamo reduci dalle voci della presunta imminente morte di Staley già da un annetto e ora ci si ripresenta così, attaccando con “Nella stanza più buia, ti consiglierò di non pianificare il mio funerale finché il corpo non morirà”. Una risposta terrificante e sarcastica a quelle già citate voci, ma era come se fosse una profezia auto-avverantesi. Era troppo per intavolare una discussione su quanto fossero grandi gli Alice In Chains e su che incredibile album avessero fatto, in più, Cobain era morto da poco più di un anno e mezzo perciò sapevamo che il peggio per i nostri anti-eroi sarebbe potuto accadere in qualsiasi momento e così tutti ci siamo limitati a discussioni superficiali e, in silenzio, abbiamo comprato i cd.

Il formato in LP non se lo filava quasi nessuno perché era il novembre del 1995 e ti dicevano che i dischi potevi anche buttarli dalla finestra ma quando nel negozio del Dena, uno dei pochi di provincia  specializzati in dischi in vinile, il “Vinyl Storm”,  fu esposto l’LP  omonimo degli Alice In Chains tutti rimanemmo di stucco, si provava una sorta di reverenzia ogni volta che si passava sotto a quello scaffale e tutto l’ambiente aveva preso un’aura diversa, tutto era diventato più importante, come quando una persona particolarmente carismatica entra in una stanza affollata; quel cane con tre zampe ti fissava e ti faceva abbassare lo sguardo, come se ti stesse giudicando. “Sì, mi rivolgo a te: giovane umano debole e crudele. Guarda cosa mi hai fatto. Guardati dentro!” sembrava dire, come se fosse stato lì da sempre, pronto a smascherarti. Anche perché l’assenza della custodia colorata del formato cd svelava la vera natura di quella copertina ovvero un completo bianco e nero, ad eccezione degli occhi gialli del cane, che stavano ad indicare il malessere, una condizione disperata e irreversibile, la malattia, l’orrore di tutto ciò che quegli occhi hanno dovuto vedere, tutta la crudeltà dell’essere umano, indegno, colpevole, condannato. Ora, 23 anni dopo, abbiamo raggiunto quello che il cane a tre zampe su quel disco preannunciava, infatti non lo trovi più sullo scaffale del negozio del Dena, dove al suo posto c’è un’agenzia di assicurazioni, oggi quella prima stampa la trovi a 300 euro circa su internet.

Gli AIC non hanno mai sfruttato la loro fama, quando ci si aspettava un nuovo album hanno fatto uscire un EP acustico. E poi un altro. E poi? Un capolavoro che nessuno si aspettava. Questo.

Il terzo e ultimo album con Layne Staley è  cupo, toccante, di una bellezza inafferrabile, il punto più alto di scrittura, stesura e produzione in cui Layne ha musicalmente collaborato meno, lasciando gran parte del lavoro delle musiche a Jerry Cantrell ma è allo stesso tempo l’album in cui lui risuona prepotentemente ovunque. Come se Cantrell scrivesse attraverso Layne o Layne cantasse attraverso Cantrell, non lo so. So solo che album così non ne escono più.

Alice In Chains è rimasto come un monolite: immutato, immutabile, non ci furono tournée per promuoverlo se non un paio di apparizioni televisive ai Talk Show, fu il punto di arrivo oltre al quale poteva esistere solo l’eco, era tutto quello che avevano. Tutto ciò che di vero gli era rimasto da dire. Dopodiché, esausto, sfinito, disarmato, il drago si ritirava per sempre ad aspettare la fine.

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