Impatto Sonoro
Menu

Recensioni

Saint Sadrill – Pierrefilant

2018 - Dur Et Doux
psych / alternative

Ascolta

Acquista

Tracklist

1. Waiting For Him 
2. Corq 
3. To go 
4. Zero 
5. Yar mum 
6 .We gave you a smile 
7. Building lampshades 
8. Kiss song 
9. Little mountain 
10. Happy humans 


Web

Sito Ufficiale
Facebook

Tra le band eterogenee, squisitamente armonica, nonché fresca sorpresa di fine anno, occorre annoverare il gruppo dei francesi Saint Sadrill, di Lyon, che con il loro ultimo disco “Pierrefilant” assicura un prodotto artistico di superlativo interesse le cui meraviglie sonore soggiogano non poco.

Il nutrito ensemble, sei musicisti in organico (Melissa Acchiardi – vibraphone, percussions/ Lionel Aubernon – drums, electronics/ Lucas Hercberg – bass/ Antoine Mermet – lead vocal/ Anne Quillier – keyboard, synthesizer/ Vincent Redoux – guitar), trova un accordo perfetto nel musicare i dieci pezzi in scaletta, disputando tra due estremi l’iperbolico discorso, accrescitivo e diminutivo, mantenendo costante la fantasia vulcanica di immagini sonore create, mai paghe e generosamente guarnite, ingentilite o assolutamente intime, quando non esplosive, caleidoscopiche e persino psichedeliche, sorrette da un ritmico fil rouge tensivo che fa da trait d’union a tutto il lavoro.

L’opening Waiting For Him è il fervente manifesto della bellezza e dell’inventiva di Saint Sadrill, progetto solista del vocalist Antoine Mermet, poi ampliato in sede di riproposizione live delle canzoni e per ora reso stabile dal feeling instaurato dalla formazione; in esso si sbizzarrisce tutto il collettivo esplorando, sulle ali della pseudo-suite, ogni elemento suonato e propagando malia come se scaglie di finissimo tartufo bianco piovessero a impreziosire la pietanza, donadole regalità.
Il trascinante Corq è pezzo multitasking, degno delle altezze espressive più ispirate, abbracciando i furori di TheCrazyWorldOfArthurBrown e i carillon-jangle dei Menomena: raggiunge elevati standard di coinvolgimento, il cui vortice tira dentro dalla testa ai piedi, sfavillando in diffusa follia per voce dell’ottimo singer! Il successivo To Go celebra una canzone che potrebbe chiamare in causa i VanDerGraafGenerator ma anche la vena più scura e bella dei Saint Sadrill (l’autocitazione è una chicca di originalità!), certamente si fa amare per l’incedere serioso e poetico.

Nell’abbaglio giostrante del vibrafono, avendo il basso come guida, Zero si organizza a metà tra spiritual e vaghe, ricercate atmosfere da soundtrack à la Rumble Fish, puntellata dalla partecipazione degli effetti elettronici e totalmente sospesa tra sacro e profano. Yar Mum orientaleggia cauta, calma, decisa, duetta col testo, mentre i cori dimensionano aldilà visivi implementando la sensazione di straniamento colorato (percussioni incluse) e di viaggio esotico.
We Gave A Smile: ancora un felice compromesso che ribalterebbe un pezzo dei Morcheeba così come si fa con una frittata in padella. Puntando al sixties mood, si sfocia in uno squarcio cosmico lacerando intuizioni old appartenenti ai TheUnitedStatesOfAmerica di J. Byrd sino a intentare un noise-rock alimentato dalla potente vena soul che carica brividi sulla pelle, attestazione che il pezzo centra, quanto diffonde, ogni immaginativa sonica. E Mermet fa la differenza, come nella successiva Building Lampshades, un petit morceau ricco di riflessi.

In generale, aria da musical, stacchetti Moby Rap, la voce ben caratterizzata altalena tra lo spoken e il raffinato canto costruendo picchi teatrali ed emozionali, a tutto ciò si unisce la perfetta intesa degli strumenti e dei cori, potenziando la resa pop, senza dubbio, seppur rigogliosa di alternatività e di filante creatività. Tali sensazioni recepite, scuotono a dovere.

La Kiss Song insinua cupezza in cui è possibile trovare comunanze soniche con i Radiohead, intanto la voce di Mermet scosta il baricentro ritmico della song e gli strumenti rafforzano una hammersong atta a stravolgere l’ascoltatore che ne diventa magnificamente preda entro ogni parete ed angolo di codesta creatura con aspirazioni free. Little Mountain riduce la potenza ritmica ma non quella seduttiva, in chiave minore di toni risulta segreto cofanetto foriero d’ipnosi.

Il pezzo finale spacchetta poiesi elegante spaziando e generando eccitazione nel procedere in avanti; la track si mette al servizio di supreme sollecitazioni dove le virgole, i punti, il fraseggio, i rimandi vocali e strumentali, il visibilio concertistico, dirò, delizia naturalmente acquisendo come propria quell’aria quasi vintage, non prettamente catalogabile, ma rinvenibile in atmosfere da dejà-vu, che nell’eco delle poliedricità dei riferimenti e delle convincenti situazioni del tutto nuove, tali poi appaiono, si uniformano a capolavoro nei quasi 20 minuti di “Happy Humans”, incantando ad arte.

Un ultimo appunto (tratto da un’intervista su Shiver) fa dire al guru della band, Antoine Mermet: “Ascolto anche molta musica elettronica di tutti i tipi e periodi. Quando si tratta di produttori di canzoni, sono sorpreso da Mark Hollis, Dominique Leone, Mark Tundra e Powerdove… altri tre album di cui sono dipendente: «Kulak 29 & 30» del trio di Ellery Eskelin con Jim Black e Andrea Parkins perché è una lezione di gente che suona insieme a fare grandi cose partendo da pochissimo materiale; «2» di Errorsmith per l’incredibile ostinazione che ha e anche perché è un album di computer-music super potente, e infine «Oaklandazulazylum» di Why? perché sono ancora stupito dalle canzoni e dal modo in cui suona anche 15 anni dopo”.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Altre Recensioni