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Laibach – The Sound Of Music

2018 - Mute
musical / industrial

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Tracklist

1. The Sound Of Music
2. Climb Ev’ry Mountain
3. Do-Re-Mi
4. Edelweiss
5. My Favorite Things
6. Lonely Goatherd
7. Sixteen Going On Seventeen
8. So Long, Farewell
9. Maria / Korea
10. Arirang
11. The Sound Of Gayageum
12.Welcome Speech


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Non molto tempo fa andai all’esposizione ‘NSK from Kapital to Capital’, ospitata dal Reína Sofia di Madrid. La mostra offriva una panoramica storica sulla Neue Slowenische Kunst, definizione sotto la quale trovavano rifugio e sfogo le necessità espressive degli artisti sloveni a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo. Tanti i collettivi coinvolti nel progetto, ognuno secondo la propria sensibilità e modalità espressive: dalle arti figurative, al teatro, all’installazione audiovisuale, all’architettura.

È abbastanza noto che ad assumersi l’onere di rappresentare la seconda arte fu un’allora oscura band di Trbovlje, praticamente agli esordi. Ciò che più mi colpii di quell’esposizione fu l’assoluta dedizione alla causa per l’affermazione e definizione di un’arte prettamente slovena, all’interno di un contesto oramai in prossimo disfacimento come quello dell’ex Jugoslavia. Un intento sociale e patriottico perseguito con tutti i mezzi legalmente possibili, con un ampio ricorso, non senza una certa ironia, a tecniche propagandiste da regime autoritario. In questo non furono da meno i Laibach che, anzi, spesso spingevano le proprie performance a livelli di parossismo e kitsch appena sostenibili, a un passo dal ridicolo. Eppure, se c’è una band tra le poche che, ancora oggi, può considerarsi totalmente unica e riconoscibile, anche e soprattutto da un punto di vista iconografico, sono proprio loro. Un unicum che, nel bene e nel male, continua incurante di ciò che lo circonda per la sua strada, sfornando opere che, al netto del giudizio sulla qualità, non mancano mai di essere interessanti. E questa è una di quelle.

La ragion d’essere di quest’album risale a tre anni fa, in occasione dell’invito da parte del governo nordcoreano ai Laibach di esibirsi nel paese asiatico. Com’è noto, il paese guidato da Kim Jong-un è chiuso in sé stesso, tagliato fuori da ogni tipo di scambio con l’estero, di qualsiasi natura. Difficili da determinare le ragioni dietro l’invito rivolto alla band slovena, dunque: sono gli unici che hanno accettato? Sono stati visti come ultimi improbabili baluardi di un’internazionale “comunista” orma da riserva indiana? Ad ogni modo, posso immaginare la reazione della band di fronte a un’occasione simile: un’operazione del tutto coerente col proprio percorso, peraltro.

Cavallo di battaglia di Milan Fras e compagni sono da sempre state le cover di brani, meglio se il più celebri possibile. Ovviamente filtrate attraverso il proprio stile unico, trasfigurate a tal punto da rendersi riconoscibili ma deformate, da “WTF”; e sono tra i più grandi in quest’arte. Ebbene, quale occasione migliore per portare in Corea del Nord una rielaborazione personale ed estrema di “Tutti Insieme Appassionatamente“, colonna sonora dell’omonimo film (“The Sound Of Music” in originale, per l’appunto) di Robert Wise? L’opera viene infatti utilizzata in entrambe le Coree per insegnare l’inglese ai bambini.

Spesso si dibatte dell’utilità o meno di scrivere recensioni al giorno d’oggi. Lasciando l’annosa e irresolubile questione ad altri ambiti più adatti, mai come in questo caso l’invito ad ascoltare anziché leggere è ancora più fermo. Due brani su tutti possono aiutare a capire l’aria che tira. My Favorite Things è esattamente come ce la si aspetterebbe dagli sloveni: l’atmosfera da musical e l’afflato pop sono intatti, ma è come osservare qualcosa di molto familiare e non riuscirne tuttavia ad afferrarne i connotati, come guardare un volto noto ma vederlo sfocato continuamente. Ecco, “The Sound Of Music” dei Laibach è come guardare un doppelgänger di una persona nota e totalmente innocua: qualcosa che inquieta e turba, ma che non manca di essere suggestivo. E, se avrete l’avventatezza di ascoltare Lonely Goatherd per due volte consecutive, non smetterà di tormentarmi e perseguitarvi nei sogni per il resto della vostra vita, come un Freddy Krueger delle Alpi orientali. E il confronto con l’originale è spiazzante e sconcertante, va da sé. D’altra parte, l’effetto melenso e stucchevole che suscita l’ascolto dell’opera originale all’ascoltatore medio di oggi rende questa reinterpretazione quasi una boccata d’aria e qualcosa di necessario.

Come se un’operazione di questo tipo non fosse già di per sé impegnativa, a corollario dell’album ci sono versioni inedite di brani storici della tradizione popolare coreana, come Arirang (a pieno titolo l’inno non ufficiale della nazione), improbabili celebrazioni dello strumento nazionale, il gayageum, e un’incredibile discorso di benvenuto (la testimonianza storicamente più interessante del lotto, senza dubbio) in cui i Laibach vengono accusati di suonare musica orribile, realizzare video pornografici e così via da Mr. Ryu, del Comitato per le Relazioni Culturali della Repubblica Popolare di Corea.

Un disco che gioca con la politica, col paradosso e col kitsch in maniera maledettamente seria. Un album meta-tutto, in cui svariati livelli di interpretazione si affastellano senza una possibile, unica risposta:

-È un atto di celebrazione del regime?

-È un cavallo di Troia, una critica al regime dall’interno dello stesso?

-È una mano tesa verso il popolo coreano?

-Vuole solo essere testimonianza storica e documentale?

Nessuno può dirlo, forse neanche i Laibach stessi, al contempo forse artefici e vittime di un’operazione molto complessa e affascinante. Ascoltatelo: per sorridere, turbarvi, inquietarvi e riflettere. Ne vale la pena.

È anche disponibile un documentario (“Liberation Day”) sull’esperienza in Corea, ad opera di Morten Traavik.

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