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Back In Time

Back In Time: BLACK FLAG – Damaged (1981)

Potete metterla giù come più vi pare, sostenere una cosa piuttosto che un’altra e sbandierare apprezzamenti per chicchessia ma i Black Flag sono Henry Rollins. Non il fondatore Greg Ginn, non Keith Morris – entrambi infatuati del languore della reunion e dei suoi ridicoli risvolti legali e pseudo-artistici – ma solo ed esclusivamente Henry Rollins. E non è solo perché l’artista di Washington D.C. ha gravitato attorno ai Re indiscussi dell’hardcore punk (e anche qui, vi piaccia oppure no, è così, punto e a capo) più a lungo di chiunque altro, ma anche perché ha dettato un’estetica precisa, come l’amico/concittadino Ian MacKaye per intenderci, e infine perché ha resistito ad ogni tentazione di ripercorrere una strada di cui non dovrebbe più fregare un cazzo a nessuno, perché spesso non vi è niente di più ridicolo di formare un gruppo hc nato, vissuto e morto negli anni ’80, perché è musica fatta da e per ragazzini, e a dirlo non son di certo io, povero stronzo nato nel 1986 e che quindi l’ondata non l’ha vissuta.

Insomma, com’è come non è, che i Black Flag siano un simbolo e a volte solo quello ci sta anche – ma se a fartelo notare è un tizio che segue i Suicidal Tendencies ovunque appena mettono piede in Italia lascia il tempo che trova – ma, al di là delle mode, dei tatuaggi e del merch venduto a spron battutto c’è “Damaged”. Come si può ignorare quest’opera omnia del genere che sin dalla copertina dà sfoggio di tutto ciò che sarebbe dovuto essere il genere? Perché nel primo full length dei californiani non c’è solo la mostrificazione del punk in voga in quegli anni, c’è un mondo che sferraglia di paure e odio, ferocia e clangore ma soprattutto di scenari futuri, e i più vecchi di voi lo sanno, eccome se lo sanno, anche se a furia di rimembrare i bei tempi andati si sono scordati della lezione impartita tra i tanti anche dai Black Flag, una lezione fatta di evoluzione e crescita, di commistione di generi e anti-passatista (purtroppo fallita con le reunion di cui sopra). Ai più giovani invece tocca studiare i fondamentali.

Dal canto mio, e a causa impedimenti anagrafici, i Black Flag li ho scoperti in modo anomalo comprando a scatola chiusa nel lontanissimo 2002 la raccolta “Rise Above: 24 Black Flag To Benefit The West Memphis Three”, e giusto perché avevo sentito parlare del gruppo sui giornali di settore e, non riuscendo a trovare uno straccio di disco, mi accontentai. Ma non fu l’unico motivo: Rollins, che volle imbastire il progetto, compariva in un brano di “Undertow” dei Tool (quindi al tempo pensai “è di certo un grande”) e quindi dovevo comprare questo benedetto album anche – e soprattutto – perché sul retro campeggiavano coloro che misero la voce su questo dischetto. Tra loro: Cedric Bixler-Zavala, Iggy Pop, Mike Patton, Nick Oliveri, Tom Araya, Casey Chaos e Corey Taylor. Insomma, tutta gente che suonava nei gruppi che al tempo idolatravo indiscussamente, ma anche personaggi che scoprivo lì per la prima volta aprendomi un mondo fantastico, come Neil Fallon dei Clutch e Dean Ween dei Ween. A questo serve l’hardcore, per quanto mi riguarda: scoprire nuovi mondi, suoni altri, realtà inusitate.

E così è stato al primo ascolto di “Damaged” che attacca con il controtempo di Rise Above e con il suo grido di guerra contro tutto e tutti, che si immerge nel disgusto per se stessi nel rock’n’roll orripilato di Thirsty And Miserable e va ancora più a fondo con il mostro interiore di Depression con Rollins che ulula su chitarre al limite del noise più lercio “I ain’t got no friends to call my own/I just sit here all alone/there’s no girl want to touch me/I don’t need you goddamn sympathy” e la devastazione noise-doom-heavy metal della finale Damaged I, così intrisa di follia e propulsione futura da far rizzare i capelli sulla nuca a chiunque nella scena, allora ed oggi. Diversi come solo i pionieri potevano essere, pronti a scontentare e sfidare chiunque volesse solo e solamente un “one two three four” seguito da tempi allora impossibili da controllare, i Black Flag cominciavano a guardare altrove, a rimestare nello schifo osando dove nemmeno Darby Crash osò, anche se lui fu il punto Zero di questo modo di intendere la materia. Vittime di sé prima ancora di esserlo sul serio, cosa avvenuta pochissimi anni dopo.

Ogni volta che riascolto il disco mi tornano in mente le parole di un’eminenza grigia della scena italiana di quegli anni ad una presentazione di un libro dedicato proprio al fermento hc nel nostro Paese, parole che suonavano più o meno come un “ma sì, in America in quegli anni non è che succedesse granché” e non posso trattenere un moto incontrollabile di sguaiate risate.

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