Impatto Sonoro
Menu

Recensioni

Ryley Walker – The Lillywhite Sessions

2018 - Dead Ocean
indie / folk

Ascolta

Acquista

Tracklist

 1. Busted Stuff
2. Grey Street
3. Diggin’ a Ditch
4. Sweet Up and Down
5. JTR
6. Big Eyed Fish
7. Grace Is Gone
8. Captain
9. Bartender
10. Monkey Man
11. Kit Kat Jam
12. Raven


Web

Sito Ufficiale
Facebook

L’idea di coverizzare un intero album non è nuova. Neanche troppi anni fa ci avevano pensato i Flaming Lips e Ryan Adams, facendo uscire insolite rivisitazioni rispettivamente di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles e “1989” di Taylor Swift. C’è anche un precedente italiano risalente al 2005, quando un Morgan post-Bluvertigo e pre-X Factor diede alle stampe una rilettura molto fedele all’originale di “Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André. L’operazione compiuta da Ryley Walker con “The Lillywhite Sessions” della Dave Matthews Band non è poi così rivoluzionaria come potrebbe sembrare, in fin dei conti.

C’è però un piccolissimo particolare da prendere in considerazione: il “The Lillywhite Sessions” originale non è mai stato pubblicato ufficialmente. Anzi, non è mai neanche davvero esistito: le dodici tracce al suo interno sono poco più che dei work in progress registrati tra il 1999 e il 2000 al fianco di Steve Lillywhite, produttore dei primi lavori della band e noto anche per le collaborazioni con U2, Morrissey e The Psychedelic Furs. I dirigenti della RCA Records, delusi dallo scarso appeal commerciale dei brani, invitarono gentilmente Dave Matthews a scartarli in blocco e ripartire da zero. Il successore di “Before These Crowded Streets” finì così per diventare il mediocre e fin troppo radio-friendly “Everyday”, composto in fretta e furia insieme all’illustrissimo re Mida del pop Glen Ballard e arrivato nei negozi di dischi di tutto il mondo nel lontano febbraio del 2001.

Neanche un mese dopo, un cd masterizzato contenente le sfortunate sessioni di registrazione di inizio millennio capitò nelle mani di un certo Craig Knapp, un vecchio fanatico del quintetto di Charlottesville che, con grande spirito di altruismo e in barba a qualsiasi tipo di legge sul diritto d’autore (anche se lui, ancora oggi che sono passati quasi due decenni, giura di aver chiesto il permesso a Steve Lillywhite in persona), riversò il tutto in formato mp3 per poi renderlo disponibile al download sulle piattaforme peer to peer all’epoca più in voga (ve le ricordate? Napster, WinMX, Bearshare, Kazaa…). Il disco riscosse talmente tanto successo tra i fan da convincere la band a ridare una chance a buona parte dei suoi brani, che nel 2002 vennero leggermente modificati e riregistrati per l’eccellente “Busted Stuff”.

Le versioni originali di “The Lillywhite Sessions”, tuttavia, restano ancora oggi disponibili esclusivamente come bootleg. Un vero peccato, perché si tratta della testimonianza più genuina e limpida dell’enorme talento compositivo di Dave Matthews. Un lavoro maturo, malinconico e a tratti persino deprimente, nato in un periodo in cui il cantante/chitarrista nato in Sudafrica tendeva un po’ troppo spesso ad alzare il gomito e a rimuginare sulle sue innumerevoli sciagure: un padre morto quando aveva solo dieci anni; una sorella maggiore brutalmente uccisa dal marito; tre proposte di matrimonio finite con un buco nell’acqua.

Che sia stata proprio questa aura quasi maledetta che avvolge le tracce di “The Lillywhite Sessions” ad aver convinto l’intraprendente Ryley Walker a offrircene una sua versione? Può darsi; d’altronde, qualche anno fa fu lo stesso Dave Matthews a definirle semplicemente delle “tristi bastarde”. Dietro l’ambizioso progetto di Walker c’è il desiderio di rendere omaggio a un suo idolo adolescenziale; una superstar del pop rock americano che la critica ha sempre snobbato, se non addirittura messo in ridicolo. In patria Matthews è quello che qui potremmo definire un eroe nazionalpopolare. Suona davanti a folle oceaniche e piace a grandi e piccini, tranne naturalmente ai duri e puri convinti che le uniche cose davvero buone si nascondano nel sottobosco musicale.
Ryley Walker è invece un astro nascente dell’indie folk, il genere più amato da quegli hipster per i quali, molto probabilmente, questo “The Lillywhite Sessions” rappresenterà una sorta di cortocircuito. Amarlo perché registrato dall’idolo underground Walker, o disprezzarlo perché scritto dal cattivone mainstream Matthews? Direi più la prima che la seconda. Nelle mani del cantautore di Chicago queste dodici “tristi bastarde” si trasformano e diventano qualcosa di completamente diverso, ai limiti del riconoscibile. Dominano atmosfere fumose e spettrali, soprattutto nella “scheletrica” reinterpretazione di Grey Street che, incredibile a dirsi, qui assume toni cupissimi.

Sulla stessa linea Bartender, con il suo carico di chitarre riverberate e qualche eco di alt country. Se Busted Stuff mantiene quasi intatta la sua vena dolcemente malinconica, Diggin’ a Ditch abbandona la dimensione acustica per approdare in territori decisamente elettrici e grunge. Non si avverte la presenza del violino, ma i fiati ci sono eccome; Ryley Walker li sfrutta in maniera leggermente diversa rispetto a Dave Matthews, lasciandogli ampio spazio per improvvisazioni ad alto tasso jazzistico. Ed è proprio il jazz più acido e “free” a prendere il sopravvento in numerose occasioni, da Sweet Up and Down (qui convertito in uno strumentale) a Kit Kat Jam, passando ancora per la lunghissima coda psichedelica di JTR e l’indecifrabile esperimento rumoristico/avanguardistico di Monkey Man.

Interessante infine notare come due tra le ballate più belle ed emozionanti mai registrate da Matthews, Grace Is Gone e Captain, siano state ritoccate in maniera molto meno eclatante rispetto agli altri episodi. Walker e la sua band (il bassista Andrew Scott Young e il batterista Ryan Jewell) ce le ripropongono sotto vesti persino più intime ma altrettanto splendide. “The Lillywhite Sessions”: un esempio di coraggio ed intraprendenza che non ti aspetteresti mai da un’artista che ha esordito appena quattro anni fa; un omaggio sincero e sentito a un gigante incompreso del songwriting statunitense, qui fatto risplendere in tutta la sua ineguagliabile classe.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Altre Recensioni