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Back In Time

Back In Time: LA DISPUTE – Somewhere At The Bottom Of The River Between Vega And Altair (2008)

La Dispute

Una triste storia, quella della principessa tessitrice Vega e del suo amato, il guardiano dei buoi Altair: avvicinati dal fato e innamoratisi perdutamente, i due giovani vedono la loro nascente storia d’amore osteggiata dalla madre di lei, la Regina del Cielo, disposta a separarli con un grande e fragoroso fiume in grado di mettere fine al loro idillio. Solo la benevolenza e la pietà del padre imperatore riusciranno a limitare questa tragedia familiare, concedendo ai due sposi un giorno all’anno per potersi incontrare.

Incastriamo mentalmente una storia di separazione/riunificazione, condita di sentimentalismi e tristezze di ogni sorta, amore e patimenti, all’interno di una delle opere alternative più indecifrabili dell’ultima decade, capace di  lasciare a bocca aperta alla domanda “che cosa stanno suonando questi qua?”.

Ricorre il decennale dall’uscita di “Somewhere at the Bottom of the River Between Vega and Altair”, il maestoso e sfuggevole capolavoro musicale dei La Dispute, band di Gran Rapids (Michigan) che se non ci fosse bisognerebbe inventarla, o anzi disegnarla e inquadrarla in una cornice che risponda a qualche cliché, rimanendo però delusi da come sia comunque capace di svignarsela per tornare a farci andare a gambe all’aria con il suo sound e i suoi barocchismi. Come scrisse James Shotwell su underthegunreview.net ormai due lustri fa, “this is an album that EVERYONE needs to hear”. Nessuna considerazione fu più azzeccata, visto l’impatto devastante che questo album è riuscito a marcare col passare del tempo, catalizzatore di emozioni e mina vagante progettata per un’esplosione immediata una volta sotto i piedi di un incuriosito ascoltatore, o di un fan accanito di ciò che diedero alla musica giganti come At The Drive-In e mewithoutYou. Ma basta questo a capire cosa si ha fra le mani? Basta qualche mostro sacro a fare due più due, a saltare a facili conclusioni, a declassare brani e idee con un “già sentito, già visto …”?

“Any categorization is pretty strange for us. We don’t sit around trying to think of what genre we play, or what niche we fall into, we just enjoy writing and playing the music that we do. Titles are divisive, but more than that, it’s just never been on our radar. We all listen to different stuff, so it ends up a sort of amalgamation of sorts. Anyone elses description is as good as one we’d be able to come up with.”

La Dispute

Jazz, blues, rock, punk, uniti come frutti di un albero sempre maturo che fa cadere a terra concetti, momenti raccolti in lunghi periodi o frasi secche e scarne, come foglie che di tanto in tanto decidono di staccarsi e vivere sole al di fuori di un cerchio espressivo che prima o poi, volente o nolente, si chiude. Poesia, certo, in quanto flusso di pensieri su ciò che circonda il nostro essere. Jordan Dreyer, eccentrico vocalist e figura chiave dei La Dispute, si traveste da cantastorie per spingerci alle spalle all’interno di una narrazione drammatica ed epica, che usa la storia dei due innamorati divisi per farci convivere con la separazione e con il dolore.

“Somewhere…” prende vita nel novembre del 2008, dopo un anno di gestazione da parte della band, impegnata tra scrittura e registrazioni, effettuate quest’ultime allo StudiOtte di Gran Rapids. I quasi 52 minuti e le 13 tracce che compongono l’album rappresentano ancora oggi una delle release di punta della No Sleep Records, etichetta che già all’epoca dimostrò ampiamente di saperci fare con le nuove proposte musicali. Incredibile come ogni minimo dettaglio del lavoro dei La Dispute risulti curato e meticolosamente ordinato, capace però al tempo stesso di convivere con un’immediatezza tipica del filone “post” e dell’hardcore stesso; Dreyer e soci sembrano essere di fronte a noi, strumenti a tracolla e bacchette in mano, pronti a far scorrere un pezzo dietro l’altro senza soluzione di continuità.

In apertura, Such Small Hands si insinua nel nostro io, lentamente, come il crescendo di batteria che la contraddistingue, mentre le chitarre recitano una litania che accompagna al capolinea, un lento e inesorabile declino di fusti che rimette tutto all’esplosività di Said The King to the River e al suo tambourine introduttivo, anticamera di quel “tonight we ride, tonight we ride” inevitabilmente inno di tutto l’album. New Storms For Old Lovers è senza dubbio l’agglomerato più hardcore, capace però di incorporare anche un breve stacco di sola voce, in grado di aprire a un riff di stampo defeateriano, che sfocia poi in un lungo e oscuro crescendo che si frantuma su hand claps che lo stesso hardcore forse non ha mai conosciuto.

“So we escape to our mistakes for they wait patiently for us / oh how they always wait for me / if my fear has kept me here / only my fear can set me…free”

Recita così Damaged Goods, con la sua batteria al limite dell’impossibile, il suo assolo così rock, la sua cattiveria che domare non si può, fatta di vuoti e di pieni pazientemente studiati, in cui ogni nota cade precisamente dove deve stare. Mistico, bizzarro, come la spoken word poetry di Fall Down, Never Get Back Up Again, per la quale il nostro Shotwell scrisse testuali parole: “the song has an aura you can’t turn away from and heed like a decree from a king. It’s a soft piece that gives us just enough time to begin to re-appreciate the beauty in simplicity”.

Se Bury Your Flame attacca senza freni, lanciata in una folle corsa con tanto di cori in pieno stile hc e cavalcate di chitarra rockeggianti, Last Blues for Bloody Knuckles spinge dentro dei violini, mentre il rullante gigioneggia in sottofondo, creando un tappeto prog. The Castle Builders, traccia numero otto di “Somewhere…”, anticipa con il suo breakdown finale la danzereccia e folk Andria, che ripropone il caratteristico binomio sound svuotato/sound riempito che incredibilmente i La Dispute riescono a non rendere mai banale (basti pensare a come segue la sbarazzina e incazzata Then Again, Maybe You Were Right). I climax arrivano in tutti i brani, certo, ma vi sono talmente tante sfaccettature da perdersi nei meandri creati ad arte dalla band per trascinare l’ascoltatore sul fondo e fargli vivere determinate sensazioni. Quale immagine creiamo nella nostra mente, ascoltando l’intro di Sad Prayers For Guilty Bodies? Il brano ha un che di Thursday, poi la voce di Dreyer incide come suo solito nella carne, accompagnando a uno sperimentalismo conclusivo rappresentante forse uno dei punti più alti della band che prende il nome da una delle opere migliori di Pierre de Marivaux.

Il gran finale si divide fra una lunghissima e disperata The Last Lost Continent, con i suoi dodici minuti di emo e post-rock dalle tinte estremamente cupe e talvolta lineari (come la cassa lasciata sospesa a inizio brano), trattenute a stento dallo scatenarsi, e Nobody, Not Even The Rain, che riprende come la opening track aveva concluso, recidendo ogni sorta di dubbio sull’amore che lega, forse,  i due innamorati di cui i La Dispute si fanno difensori (“Your hands still catch the light the right way and our hearts still beat the same”).

Impatto, adrenalina, emotività, sentimento, forza quando necessaria, tranquillità quando dovuta: “Somewhere…” è e rimarrà uno di quegli album necessari e inossidabili, come l’amore che talvolta contraddistingue qualcosa che sembra impossibile da raggiungere, ma tanto vicino da poterlo sfiorare, osservare, apprezzare.

La Dispute

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