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Etienne Pelosoff – Trve Brutal Black Jazz

2018 - autoproduzione
blackjazz

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Tracklist

1. So What
2. Tritone Labyrinth
3. See-Line Satan
4. Soul Power
5. Tutu
6. Trve Brutal Black Jazz


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Quest’anno gli Shining hanno fatto qualcosa di buono anche per me, siccome il loro album proprio non l’ho digerito – ma questo già lo sapete. Ciò che probabilmente ignorate invece – come d’altronde l’ignoravo io stesso – è l’esistenza di Etienne Pelosoff. È proprio grazie alla band di Jørgen Munkeby che scopro che questo compositore francese è un matto scatenato che ha preso molto sul serio l’idea di blackjazz, termine coniato proprio dai norvegesi e donato al mondo, nella speranza che qualcuno ne cogliesse il significato dandogli forma compiuta mischiando in maniera criminale le due componenti intrinseche.

A onor del vero la strada era già stata intrapresa da John Zorn (come ammette lo stesso Pelosoff) e i nostrani Ephel Duath tentarono qualcosa che vi si può avvicinare con il leggendario e micidiale “The Painter’s Palette”, anche se quel disco restava su coordinate più math e post-coreggianti piuttosto che black – nonostante la provenienza del gruppo stesso. Etienne invece non usa mezze misure e si pone una quesito importante ossia: come suonerebbe una collaborazione tra Miles Davis e i Mayhem? Giuro, è un virgolettato preso dal suo sito, non mi sto inventando nulla.

Così nasce l’EP “Trve Brutal Black Jazz” ed è esattamente la risposta alla domanda di cui sopra. Apparentemente un’idea del genere potrebbe portare all’ormai proverbiale “cagata pazzesca” e invece Pelosoff e i suoi otto collaboratori esterni (tra i quali svetta il sassofonista Tim Sanders già in giro su dischi di Blur, Spiritualized, Marc Almond, Rolling Stones e un’altra miliardata di mostri) tirano fuori dal cilindro ‘sta roba indescrivibile, di quelle che arrivano in silenzio e mandano all’aria tutto, che fanno un rumore della Madonna e, cosa migliore di tutte, il suo essere deliziosamente fine a se stessa la rende ancor più indegnamente fantastica.

Ecco, il bello è proprio che non serve a nulla, nemmeno a definire una “moda”, forse non sarà neppure un capostipite ma intanto c’è e si sente, ti lascia lì per lì, ti ricorda i tempi più jazzati di qualcosina di microscopico dei Carpathian Forest (fidatevi, ci sono) e pure lo smarmellamento e le aberrazioni dei connazionali Peste Noir ma non somiglia né agli uni né agli altri. Così tra grida aliene e gelide (il cantante Alexander Scott sembra un redivivo Dead) e chitarre a rasoio scintillante si aprono come fiori delicati deliranti deliqui pianistici a metà strada tra Keith Jarret e Ahmad Jamal piantate tra notturni che ricordano molto da vicino le composizioni di Charlie Haden (See-Line Satan), accompagnate da atrocità soul-funk che salutano l’eroe dello slap Marcus Miller e l’amico George Duke in un turbine di Tower Of Power, JB e mattonate ultra funkadeliche innestate nel cuore di un enorme mostroide Emperor style (Soul Power è qualcosa di incredibile, nemmeno i Chrome Hoof hanno osato tanto), e su tutto spicca il sassofono, utilizzato come vero portavoce della follia pur stazionando sempre su soluzioni melodiche e (quasi) mai schizoidi, più Coltrane/Coleman/Shorter che Zorn/Brötzmann (So What).

L’ensemble s’inchina al simulacro prog-synth-jazz di Davis sull’immensa Tutu, con le tastiere gigantesche di Pelosoff nei panni di Jason Miles a furoreggiare con la stentorea tromba di George Hogg e il basso omicida di Rob Statham che si invola in un solo ultra fusion a dir poco delizioso mentre tutto attorno si scatena un male in tempi disastrosamente veloci virati super trve che hanno il loro apice nella psicosi della title-track che ancora una volta rende onore ad Ihsahn e soci con un ritmo tropicalia che poco ci manca a ricordare Arto Lindsay.

Roba da manicomio. Roba che sfonda i confini nel suo essere senza precedenti. Roba che se rimanesse solo un EP risulterebbe un crimine. Venite dunque a scoprire come suonerebbe Miles Davis in compagnia dei Mayhem.

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