Qui parliamo di un presente che ha una lunga storia alle spalle. Noi oggi pensiamo all’elettronica come qualche cosa di avveniristico, che cambia i destini dei modi d’uso. Nel caso della musica, sembra quasi che ne cambi le regole (ammesso che ci siano mai state) con i suoi strumenti e con le varie maniere di intenderla (per esempio dalla melodia si passa ai rumori; dai rumori si passa alle loro alterazioni; e così via fino ad un lento cammino verso il non-riconoscimento della sorgente).
Ebbene, come potevate immaginare, non è così. Il cammino della musica elettronica non è di tipo evoluzionistico (forse le forme artistiche in generale), non segue il progresso, non cerca un punto d’arrivo in quello che noi immaginiamo debba essere “il traguardo”. Dovremmo sempre (questo avverbio va sottolineato) tenere a mente l’opinione di Jean Michel Jarre quando il tipico giornalista fa la sua domanda “esotica”, come i colonizzatori che vedono indigeni da fotografare e gli danno un oggetto di uso comune (da civilizzato) per vederne la reazione: come si definisce la musica elettronica? Jarre, da buon francese (ovvero, senza dosi eccessive di simpatia o di accomodamento), reputa la domanda stupida, come se Beethoven o Mozart “avessero prodotto musica meccanica”, poiché “non-elettronica”. Ecco, ora basta parlare di elettronica come se fosse roba da nerd con sindrome di asperger o da cervelloni che fanno vivere le proprie macchine senza che il musicista intervenga. Musica elettronica è musica definita tale poiché utilizza strumenti elettronici. Ma come tali, sono strumenti: poi bisogna trovare qualcuno che li sappia “suonare”.
Il caso di Laurie Spiegel ha a che fare proprio con quest’ottica non evoluzionistica dell’elettronica. Due dischi che oggi vengono riediti (“The Expanding Universe“ del 1980 e “Unseen Worlds” del 1990) e che fanno intendere quanto quello che è stato fatto “ieri” sia ancora molto attuale, se non addirittura avveniristico. Ma ci vuole poco per farsi quest’idea. Basta ascoltare alcune tracce per farci venire in mente Ursula Bogner/Jan Jelinek, Kit Clayton, Deadbeat, Rimarimba, e potrei ancora continuare. Se prendiamo il primo disco, che combina armonie lente con textures ricche di armonie e ritmi complessi (vengono chiamati in causa Fahey e Bach, giusto per dirne una), viene tutto composto usando il GROOVE system nei Bell Laboratories negli anni ’70.
Per quanto riguarda invece il successivo “Unseen World“ (che prende spunto dall’esagramma #16 dell’I Ching “Entusiasmo”) è qualcosa di abbastanza diverso. Avendo vissuto diverse esperienze con varie strumentazioni, la Spiegel decide di utilizzare e originare uno strumento tutto suo: Music Mouse – An Intelligent Instrument, uno strumento specializzato per le sue composizioni (successivamente la Macintosh, Amiga e Atari metteranno in vendita Music Mouse). Ecco, il disco fu un completo disastro in termini commerciali e (storicamente, fino ad oggi) è finito nel dimenticatoio. In sostanza, possiamo considerare la riedizione di questo disco come la prima vera e propria pubblicazione. Anche “Unseen World“ non si basa su melodia e ritmi, ma esclusivamente su textures, pulsazioni e ambienti sonori. Insomma, vengono uniti il tecnico e l’artistico e fa rivivere la “realtà virtuale” che in quegli anni ossessionava la (sub)cultura – vediamo adesso cos’è la virtualità e in che termini siamo progrediti rispetto ad essa.
Ed erano quelli i luoghi inesplorati del suono, i mondi sconosciuti della composizione, della musica, Unseen, appunto. Unseen e unheard per davvero molto tempo, fino ad oggi.