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Mono – Nowhere, Now Here

2019 - Pelagic Records / Temporary Residence Ltd.
post rock

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Tracklist

1. God Bless
2. After You Comes The Flood
3. Breathe
4. Nowhere, Now Here
5. Far And Further
6. Sorrow
7. Parting
8. Meet Us Where The Night Ends
9. Funeral Song
10. Vanishing, Vanishing Maybe


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Se mi chiedessero di descrivere i Mono in una parola non saprei che rispondere. Non me ne basterebbero 100 o più. È più probabile che semplicemente le lacrime comincerebbero a rigarmi il volto. Una pioggia torrenziale di sentimenti e ineludibili labirinti emotivi. Forse le parole alla fine sono giunte, ma non sarebbero sufficienti. Ogni volta che mi ritrovo a recensirli le mani viaggiano distaccate dalla mente, non coinvolta in quest’ardua operazione. Probabilmente non sarebbe nemmeno necessario recensirli. È necessario viverli, in cuffia, ovunque ci si trovi.

Il paesaggio stingerebbe, squagliandosi come un quadro impressionista, le forme perderebbero consistenza e colerebbero fino a terra, diluendosi in acquitrini di dolore e amarezza impareggiabili, infiniti, immensi come immenso è l’universo. Senza il timore di disegnare confini dove non dovrebbero esserci, generi che non ha senso alcuno vengano apposti, definizioni che perdono di valore. Il cuore s’infrange come un vetro colpito da un sasso levigato dai secoli, reso perfetto da colori che prima non c’erano, questo è “Nowhere, Now Here”. Non sta davvero da nessuna parte, eppure è qui, oggi, a.D. 2019, e vi è una giustizia se c’è, se appare spiccando un volo icariano verso un sole che non può far nient’altro che spegnersi lasciandolo libero di librarsi.

Trascendere i generi, questo è il compito della band, farsene beffe pur amandoli come si adora un’amante infedele e accarezzarli fino ad addomesticarli, a renderli nuovi, brillanti ed infine compiacersi dell’atto. Giganti dagli occhi di rubino che si stagliano su cieli neri dai quali cadono gocce amare, come il pianto di esseri superiori inginocchiati su taglienti chitarre adamantine che si gonfiano fino a divenire simulacri di granito, sciabordii elettrici composti da violenza inaudita e sacrilega che parlano in lingue astratte di amori perduti e degli strascichi dolorosi rimasti al loro posto (After You Comes The Flood) che si dileguano alla vista di figure diafane inginocchiate in templi polverosi, ammansiti dalle trasparenze vocali di Tamaki Kunishi (Breathe), la cui ugola stregherebbe mostri e spiriti infernali, anime dannate conosciute in un trip dantesco.

Viaggi cosmici senza meta con gli occhi rivolti all’oscurità eterna che, una volta adattati, mostrano silouette aliene sottolineate da fiati ed archi in un crescendo di abominevole epicità tra silenzi estenuanti e stelle morenti che decadono in implosioni raggianti (Nowhere, Now Here, Funeral Song), strazianti lamenti impigliati nel filo spinato nato dal ricordo di campi di battaglia abbandonati su pianeti dimenticati da Dio (Sorrow), cori angelici intarsiati da trame di chitarra volte all’abbandono (Meet Us Where The Night Ends) il tutto sottolineato da tracce invisibili, pulsazioni elettroniche che riverberano da macchinari che sembravano spenti da sempre.

Troneggia la sensazione di essere davanti ad un’opera definitiva. Come quando gli uomini videro per la prima volta le costruzioni megalitiche dei propri predecessori e sbalorditi si chiesero come fosse possibile averle costruite. Inutile porsi domande, inutile cercare risposte.

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