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Gomma – Sacrosanto

2019 - V4V Records / Peermusic
indie

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Tracklist

1. Fantasmi
2. Pessima Idea
3. Verme
4. Quarto Piano
5. Strade
6. Come va, Paolo
7. Balordi
8. Animali
9. Tamburo
10. Santa Messa


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Oggi tutto è il contrario di tutto e sui Gomma ne ho sentite dire di ogni: che ricordano Slint, My Bloody Valentine, American Football e persino i Sonic Youth, se non proprio i Fugazi. Ora, che il quartetto casertano vi piaccia oppure meno, bisognerebbe saper dare il giusto peso ai propri ascolti, avere quell’oncia di senso critico buono per vendere una cosa per quel che è senza affibbiare somiglianze inesistenti per il terrore di passare per quelli che ascoltano – e apprezzano – la band indie underground “più in voga” al momento (un nostro approfondimento a riguardo).

Mi lancio così in un esperimento puramente sociale e vado a leggermi i commenti su YouTube sotto uno dei primi singoli e trovo spesso la parola punk, e in cuor mio so di non aver mai visto un uso così sconsiderato del termine, neppure quando si parla di mera mancanza di tecnica – grosso modo ogni epoca ha la sua dimostrazione di cosa vuol dire essere punk, o meglio, del bello di non esserlo e della vacuità della denominazione stessa.

All’improvviso la voce fuori dal coro: “Non basta una parrucca per far finta che ‘sta roba i primi Verdena e i Prozac + la facevano meglio e con più personalità vent’anni fa”. In meno di due righe ecco l’essenza della band.

Sono passati tre anni dal primo album – quello da cui sono scaturite tutte le strampalate similitudini di cui sopra per intenderci – e la faccenda è rimasta pressapoco la stessa. I Gomma di “Sacrosanto” sono giovani e suonano musica imberbe e seppur con questi tre anni in più sulle spalle poco o nulla è cambiato, eccezion fatta per la produzione. I suoni fanno il balzello ed innescano un gusto più vicino al post-hc (perdonami MacKaye) annacquato da un misto di indie “nuova maniera” e itpop: batteria gonfia e presente, chitarre e bassi a frequenza bassissima – le prime nasali al limite del fastidio, il secondo acido – e voce tutta fuori.

Un tocco di furbizia non da poco e a conti fatti un marchio di fabbrica che shakera assieme i succitati Verdena prima maniera (senza tecnica ed espressività), Prozac + e gli ultimi Gazebo Penguins. L’insipida Tamburo ne è apice ed espressione, un brano che passa e va senza lasciarsi dietro nulla se non una lancinante sensazione di già sentito – e parlo in senso assolutamente letterale e quindi vi consiglio caldamente l’ascolto di Buio dei Fine Before You Came. Della band di Gian Maria Accusani, invece, viene dunque presa solo la percentuale estetica, lasciando fuori tutti quegli aspetti che al tempo ne fecero la fortuna.

I testi, che in molti hanno bollato come poetici, sono molto più semplicemente una serie di simil teenage angst (perfettamente in linea con l’età di chi li scrive) ascrivibili alla sempre più abusata “poetica da social media”, usus scribendi che annulla ogni tentativo di rendere intense le liriche – è bene ricordare che qui non stiamo giudicando le vicissitudini dei componenti di una band ma di come essi le narrano, belle e brutte che siano, quindi abbassate il ditino inquisitore. Un ascolto attento di Balordi, Fantasmi e Santa Messa può far comprendere chiaramente ciò di cui sto parlando.

La struttura delle canzoni è quella che funziona e mostra le vestigia di un pop muscolare e furbesco, scritto per accalappiare chi si vergogna di dire che non è la band di David Pajo a passare più spesso dai loro stereo bensì Calcutta, Maria Antonietta, Pop X e compagnia cantante. Formula vincente, si diceva una volta, e che per il tal motivo si ripresenta di continuo, ora più incisivamente (Pessima idea), ora sotto le mentite spoglie di ballate elettriche tardo-adolescenziali, che con l’aggiunta di un synth potrebbero compiacere i nostalgici dei Super B (Quarto piano).

Mettetevi l’anima in pace perché degli Slint, dei Fugazi, del post-hc qui non c’è nulla: mancano le viscere, i racconti sgorganti frustrazione, ma soprattutto qui non ritroviamo neppure il ben più minimo riscontro di tutti i paroloni usati nei comunicati stampa del gruppo, ma solo una pallida imitazione dell’alternative rock che in Italia gira da una quindicina d’anni ad esser buoni (Strade).

Punk da oratorio spaventosamente dimenticabile, “underground” quel tanto che basta per far pizzicare il senso della stramberia di un pubblico sempre meno esigente (Verme; Come va, Paolo), e i Gomma ne sono riflesso costante, privi dell’urgenza che si confà a chi vuol essere ciò che in molti vedono in loro, ma capacissimi di scrivere in sostanza una sola melodia per poi distribuirla uniformemente in ben 10 brani, nessuno dei quali spicca sugli altri – complice l’uso monotono delle linee vocali.

Tocca dirlo: qui di sacrosanto c’è solo un ottimo esempio di come un disco possa risultare piatto ed incolore nella sua interezza. Siccome oggi tutto è il contrario di tutto – e qui il cerchio si chiude – anziché essere poco più di una meteora indie forse verrà santificato più di quanto meriterebbe. D’altro canto è qualcosa che abbiamo già visto e che seguiteremo a vedere in questa bolla di musica alt che alt non è. Altro che shape of punk to come.

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