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Back In Time

[Back In Time]: BLUVERTIGO – Zero-Ovvero La Famosa Nevicata dell’85 (1999)

Gli anni tra medie e liceo, roba in musicassetta, roba strana, a casa di un’amica, roba così, da ragazzini. Eppure nel nastro c’era qualcosa di forte, imponente, per quegli anni di formazione del mio percorso verso la stramberia. Perché al tempo i Bluvertigo non erano i “fighi”, quelli da imitare, finivano su MTV Italia e sulle altre emittenti, perché qualcosa sottoterra si muoveva, ma come movimento poi stazionava in una zona grigia, perché i Bluve erano distribuiti Sony Music, ma la firma finale era di Mescal, quando questo nome voleva dire qualità, diversità, anomalia.

Se ascoltavi loro e svariati altri, beh, non eri certo quello più in della classe. Li guardavo nei video e mi piacevano al di là della musica, nella transizione da “spettinato” a truccato e coi capelli lunghi, con lo smalto (però lo presi in prestito da Manson, Bowie e da Wes Borland, due di questi elementi comuni alla band di Monza), in altre parole bizzarro, e va da sé che era anche il periodo in cui mi approcciavo ad un altro mio amore ma da medium diverso, ossia “Le bizzarre avventure di Jojo”, manga ad opera di Hirohiko Araki, e per me c’erano delle similitudini. Le pose effeminate, i vestiti naïve, le labbra pittate e le unghie anche, e i protagonisti erano tutti maschi, quindi tracciavo una riga, che non vuol per forza dire ricerca di una diversa sessualità tout court, alla fine, ma ne era superamento a conti fatti. Ieri come oggi una traversata del deserto a piedi nudi, ma ai nostri giorni svilita sul fronte musicale da band innocue.

Insomma ti affrancavi, mi affrancavo anzi, dalla normalità e ogni volta la colonna sonora era diversa, ma il gruppo trainato da Marco”Morgan”Castoldi e Andrea”Andy”Fumagalli, beh, era quel che ci voleva. In Italia anche a fine ’90/inizio ’00 non era così ovvio, così semplice. Loro quando li sentivi nelle interviste tiravano fuori tutti questi nomi per me al tempo assurdi, che so, Sylvian e Sakamoto, erano gli eruditi tra gli eruditi e si fregiavano del titolo di “epicurei”, nell’accezione pop che li contraddistingueva maggiormente, quella di fruibilità nella sua forma più difficile, molto Warhol, sì, ma anche parecchio Duchamp, che gli vuoi dire? Erano diversi e non vedevano motivo per non fartelo pesare: nei testi, nei modi, le liriche imbrattate di ego smisurati, che se gli After erano l’introspezione intimista e l’urlo primitivo (anche sul gioiello calmo di “Non è per sempre”, uscito proprio quell’anno) e svergognato nietzschiano i Bluvertigo erano freudiani ma non meno sfrontati, sempre a parlarsi addosso e vomitando (i)odio, ma con la signorilità dandy – pur essendo lo stesso Agnelli un gran bel dandy.

Ma poi mi ricordo ancora di quel giorno che vidi MTV Kitchen e in studio c’era proprio Morgan e tutto era bellissimo, pensate quel che capitava: Andrea Pezzi era precursore dei vari programmi culinari e chiamava tutti questi matti, con Mao che suonava e mentre tutti ci si faceva i cazzi propri, si parlava di arte e musica. Su MTV. “Oggi” che MTV è reality e Jersey Shore e figli e alla fine non esiste più, oggi che la condivisione quotidiana è ovvia, 19 anni fa in quello studio/salotto avveniva l’inusitato in terra di Stivale, e me lo riguardo oggi per scrivere ‘sta cosa che sta perdendo una forma, e mi fa stare..non so come. Mi porta allo zero, e tra uno zero e l’altro, in tempi non sospetti Morgan canta De Andrè.

Ma prima di quella fascinazione così calda e nostrana c’era tutto un amore sperimentale e digitale, e anche qui non c’è un cazzo di ovvio, nella breve vita dei Bluvertigo, che fanno un percorso al contrario partendo da una psichedelia chimica (come la trilogia omonima) tentando di batter strade fino a quel momento percorse solo nel sottosuolo e mai portate alle estreme conseguenze del pop, quindi nelle acciaierie pagane del post-industrial, questi quattro scoperchiano il vaso di Pandora e arrivano a quello che sarà l’Ultimo Disco col piglio di chi vuole veder colare a picco le vendite, perché “Zero – ovvero la famosa nevicata dell’85” è l’album meno commerciale e al tempo stesso apice di quella vendibilità che elettronica ed industrial (+ un tocco post-punk con l’amore funkeggioso e black del Pop Group) qui non avevano. Al tempo giuro che non lo sapevo, ma riascoltandolo di anno in anno si è rivelata la natura, quel portare le chitarre dei Nine Inch Nails e le pulsazioni elettrogene con cui già giocò il loro eroe Battiato ad un altro livello, spedendo il tutto tra gli alternativi che si battevano a darsele di santa ragione con le chitarre distorte e fuzzanti, oppure si trasformavano piano in cantautori ferruginosi (e poi alla morte del proprio verbo, in taluni casi, leggi Marlene Kuntz), restando puliti.

Inizia il disco ed è chiaro l’intento con una intro battezzata da un sample di Malcolm X e ammazzata da oggetti straziati (da lontano guardava Blixa Bargeld), e poi parte la title track e non c’è gioco, le sei corde trasfigurate e compresse (qui a spiare è Reznor) e piglian per il culo Abel Ferrara – che lo trovavi da Blockbuster – e continua a spaccare i timpani e si apre, da robot a band in un battibaleno. I testi non si smuovono dal lettino dello psicanalista, eppure la facilità con cui il tutto ottiene una sua profondità, dal power-poprock di La crisi alla ferocia trapanata de Lo Psicopatico che affonda le mani tra Trent e Marilyn eppure capace di starsene sullo stesso album dell’afrore sixties, davvero tra Can, Beatles e Sylvian per di più in inglese, di Finché saprai spiegarti e una cover pazzesca di Always Crashing In The Same Car del Duca Bianco, mica una delle più famose. Scelte forzate per forzatura straniante.

Portano dentro pesi massimi e muse ispiratrici: Franco su Sovrappensiero (gigantesca, cazzo), che non sfigurerebbe su “Gommalacca” e Mauro Pagani sull’ubriachissima Autofraintendimento (uè se piacevano i Japan) che ha pure questa batteria mastodontica. Tutto pigiato nello stesso disco, diciamocelo, è davvero possibile che il terzo disco sia quello più difficile? A quanto pare sì e in Italia, poi, seriamente. Nessuna di queste band, pur crescendo in un vivaio simile se non identico, si somigliava, e se pensiamo a quanto esce oggi sembra un altro mondo. Forse lo era. Ci credo che la retromania ha vinto.

Morgan però oggi per molti è quello di X-Factor (soppiantato da Manuel Agnelli, per mia somma tristezza, ma non entro nel merito, non qui), ma allora per me era quello vestito benissimo nel libretto di “Zero” – palesemente ispirato da quello di “Mechanical Animals” – e che pochi anni più tardi era il matto che davanti al Teatro Civico di Vercelli lo firmava e scriveva “x Fabio” seguito da “Morgan è qui” con una freccia, uno zero e un punto in mezzo. Lì stava, perché lo “zero non esiste”, e che mi ha insegnato che anche io sono come suono, e per tutti gli anni in cui ho tentato di suonare ho davvero seguito come unica verità. Ero quel che suonavo. Oggi ne scrivo. Non so più dove sono andato a parare. Concludo: se questo album lo ascolti oggi suona ancora nuovo, quindi suonalo, oh tu che non lo conosci. Vuoi mettere? Questi sono andati a Sanremo a parlare del loro amore più o meno platonico per la Fata Verde (peccato che oggi Morgan quel palco lo condivida con Achille Lauro, a voi l’ardua sentenza). Sii alt sul serio, oppure no, fai il pop con le palle. Sii Vertigoblu. Ok, ok, la smetto, ma tu ascolta.

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