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L’oscura montagna di “Carboniferous”, la luce elettrica degli Zu

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Lo dicevo che sarebbe stato necessario un articolo a sé per “Carboniferous” (dove lo dicevo? Qui!). Dieci anni, signore e signori, niente meno. Se questi due lustri me li sento sulle spalle ogni giorno, quando metto su il disco capolavoro degli Zu non sembra passato neppure un minuto da quando lo comprai e lo misi nello stereo, pronto a far tremare le pareti di casa mia che tremarono, oh se tremarono. E assieme a loro tremò tutto il mio essere.

Un disco imprescindibile, per contenuto e significato, per il suo lascito, per quello che sono gli Zu e per quello che siamo tutti noi che ci muoviamo con lampade al neon in un sottosuolo oscuro e caliginoso, scendendo in basso verso le viscere di una Terra sempre più inospitale ed aliena continuiamo a tornare a quell’alienazione culturale che fu la tenebra abissale che si sprigiona ancora oggi dai solchi dell’album.

Respirare nebbia mentre un tremore s’impadronisce del sistema nervoso, ogni brano ci avvicina all’orrore primordiale che vibra con gli strumenti, nell’impareggiabile ferocia di un trio che è un’Idra che stritola tra le sue spire. Io seguivo la scia di distruzione sonora che si lasciava appresso, di continuo e non appena potevo, li cercavo e vederli menar fendenti assieme a Slaiver, Lightning Bolt, Mike Patton. Proprio il mattatore californiano è deus ex machina dell’avvento del carbonifero, che uscì per la sua Ipecac. Impensabile, fino ad allora, che uno dei “nostri” potesse atterrare in quella terra dei balocchi che era (ed è) l’etichetta dell’ex Mr. Bungle e fu quella la spinta, la propulsione. Ci credevamo tutti. Fu importante per questo, cazzo. Essere altro poteva voler dire qualcosa di davvero grande nel nostro essere minuscoli, un microcosmo che necessitava di un’ulteriore spinta verso inferi sonici senza fine. Questo era. Questo è. Questo sarà per i prossimi dieci, venti, trent’anni a venire.

Reperto #666: Suonai con la mia band dell’epoca con gli Psychofagist, che al tempo avevano in line up proprio Luca Mai, e mi ritrovai a cena seduto a fianco a lui e glielo dovetti chiedere com’era lavorare con Patton. Lui mi rispose che era un tipo tranquillo, che ti metteva a tuo agio, professionale al massimo e nulla vi era, in studio, di quel pazzo scatenato che è in pubblico. Me lo disse con pacatezza, come se fosse tutto normalissimo. Poi ci siamo sbronzati che al Checkmate di Genova era la norma.

Mike che fa il lavoro che sa fare meglio, sgomitando, gridando, divenendo crooner su Soulympics, Mefistofele in completo bianco accompagnato da cerbero anche sulle liquide insicurezze umane di Orc, coi mostri a fare festa nel cesso di casa tua. Ma poi c’era l’elettronica, fino a quel momento in certi ambienti guardata con diffidenza o con la reverenza di chi non la mischierebbe con altro – lo dicevano che una delle influenze fu Aphex Twin – e invece arriva un pezzo a cassa dritta come Ostia, stroncato da sintetici tribalismi marziani, che si arrampica su per le pareti rocciose fino in cima a gridare “vendetta!”, un grido che si riverbera inarrestabile con il lavoro da caterpillar di King Buzzo su Chthonian, e di nuovo, cazzo, i Melvins con i “nostri”, cioè, capite? Per me fu una fucilata. Per tutti noi. Il disco è fango e abisso (come disse un mio eminente collega al tempo), fa male, non te lo aspetti e se lo avesse scritto chiunque altro sarebbe stato un disastro. Invece no. È un capolavoro di quelli duri a morire.

Carboniferous” è la vera madre di tutte le bestie e oggi più che mai è vitale ricordare che tutto ciò è successo qui, a casa nostra, mentre noi non ci accorgevamo di niente.

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