1994, 8 marzo. Quel giorno accade qualcosa, nei negozi di dischi di tutto il mondo: escono in contemporanea “The Downward Spiral” dei Nine Inch Nails e “Superunknown” dei Soundgarden. Boom. Invidio chi c’era (io avevo appena otto anni). Dico sul serio, li invidio. Escono, vanno al negozio e si trovano dinnanzi ad una scelta: quale dei due compro? Entrambi, ovvio. Due album che ridefiniscono il concetto di musica alternativa, che trascendono ognuno il proprio genere d’appartenenza, diventando materia immortale, di culto, di quelle cose che non puoi non avere nella tua stramaledetta collezione ma soprattutto nel cuore, nella mente, nel tuo modo d’intendere la musica altra e che, ovviamente, prendono a calci nel culo le sicurezze e ti staccano dalla percezione a cui eri avvitato.
Seattle era nel pieno di una tempesta mediatica senza fine, più per come la città si mostrava agli occhi del mondo che per come suonava. In molti la semplificavano, lo dicevano gli stessi Soundgarden, riff presi dai ’70, roba punk, mischiato assieme. Ma, vedete, Kim Thayil odiava i Led Zeppelin – troppo pretenziosi, diceva, attirando ulteriormente la mia simpatia – ma apprezzava i riff dei Black Sabbath, anche se riteneva che i quattro di Birmingham li annacquassero con un sacco di roba orrenda. A loro piacevano gli Scratch Acid e volevano piazzarci su i riff dei Sabbath, ma più pesanti. “Badmotorfinger” era un ottimo tentativo, “Superunknown” l’abisso che si palesa tutto nuovo e scintillante. Grunge trasceso per l’appunto, se non abbandonato, di sicuro un ricordo ormai lontano. I ragazzi erano diventati uomini, le tragedie si erano accumulate (lungi dal finire), il fondo della natura umana aveva preso forma. Era venuto il momento di passare oltre.
“A very stoner-friendly record”, ebbe a dire Cornell di “Superunknown”, ed è assolutamente vero. Il che è divertente, poiché nessuno di loro faceva uso di droghe in tal senso, ed è sempre Chris a sostenerlo. Quando vidi per la prima volta il video di Black Hole Sun, in una puntata notturna di MTV Superock ormai eoni fa, ebbi tutt’altra impressione. Ero giovane e fu il pezzo sbagliato per scoprire i Soundgarden, almeno per il giovane me, assetato di violenza sonora a spron battuto, ma fu proprio quel fare allucinogeno che mi riavvicinò ai miei primi ascolti, quei dischi che spesso furono creati sotto l’effetto di sostanziose dosi di LSD. Mi fece capire che un gruppo può scrivere un pezzo pesante come il piombo, come potrebbe essere Mailman, e poi toccare corde più lievi ma non meno opprimenti, che si può dire “ti prego porta via tutto questo schifo” anche senza gridare o accendere tutti i distorsori.
Un modo di fare introspezione attraverso un suono gigantesco, col lettino del terapeuta dato alle fiamme senza per forza risultare dei vecchi punk rincoglioniti. Per dire, persone feroci, del tipo che ho letto di questa storia che al Big Day Out di quell’anno Billy Corgan approccia Kim e Chris al bar e comincia a) a lamentarsi della sua vita “di merda” e della sua band e b) si lancia in una prolusione su come i Soundgarden siano stati importanti per la sua crescita artistica. Cornell prende e se ne va, Thayil rimane e alla fine lo prende a male parole dicendo che si lamenta (di non essere sul davanti durante i set fotografici del gruppo) nonostante gli Smashing Pumpkins siano una sorta di The Billy Corgan Experience. Questi erano i Soundgarden.
“Superunknown” è quel tipo di album che sventra tutto, che riporta al punto di partenza un suono e lo incarna in mostri dronici che fanno saltare il contagiri su ritmiche serrate nel loro essere languide senza lascivia: Cornell e Thayil si sdoppiano sul lavoro di chitarra in perfetta sincronia, il primo facendo tappeto, il secondo intarsiando situazioni lontanissime dalle mode dell’epoca, che sembra di sentire un Duane Denison perso in soliloqui folli a là Butthole Surfers senza perdere compattezza. Così Limo Wreck, la succitata Mailman, il doom assassino di 4th Of July e (i cucchiai di) Spoonman si aprono e chiudono di continuo. Ben Shepherd e Matt Cameron dimostrano di avere grandi doti compositive, e la band funziona proprio come dovrebbe fare una band, a tutto tondo. Se in mezzo a tutta questa elettricità c’è anche il coraggio di piazzare una roba come Half, in fissa ad oriente come poteva esserlo George Harrison, beh, niente da dire.
Della voce di Chris se ne è detta di ogni, che c’è da aggiungere? Un cantante soul in grado di rendere metallico il velluto, di rendere rossiniana la sfuriata più bestiale, di urlare senza farlo e piegare tutto al volere delle sue parole (e no, Superunknown non è un brano sull’eroina, e la morte non c’entra mai, perché era la vita ad interessare al quartetto). Per questo non andrebbe mai imitato. Ecco, ci metto del mio e mi espongo: il tributo a Chris fatto dai suoi amici era cosa dovuta. Qualsiasi altro in stile amatoriale andrebbe vietato. Non provateci, evitate figuracce.
Questo è davvero uno di quei capisaldi che non andrebbero toccati, quelli che parlarne è ridondante e persino inutile (ma io lo faccio anche per quelli più giovani che non si sono ancora osati). Quelli che anche quando è passato tutto e la tempesta s’è placata portandosi via qualcosa restano a monito di quanto di bello fosse starci in mezzo e al tempo stesso terribilmente difficile. Supera le mode, supera i famelici discografici, le televisioni e le radio. Tutto scartato, tranne quello che vibra dalle casse.