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Back In Time

“Locust Abortion Technician”, come una piaga in arrivo dal Texas

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Ed eccomi qua a ricordare una delle band più fetide ed anormali uscite dalla sacca scrotale di qualche entità cosmica non ben definitiva, protettrice di tutto ciò che poco buono, men che meno giusto. I Butthole Surfers, ossia una di quelle band fuori posto pure nel fuori luogo che furono i grandi (sebbene piccoli) filoni hardcore ed indie degli anni ’80 negli Stati Uniti. Brutti, lerci e seriamente cattivi i texani (pessimo luogo per crescere sì laidi) al tempo erano esagerati oltre il limite del sopportabile e presumibilmente lo saranno per sempre confronto a chiunque.

Spesso non annoverati tra i grandi che fecero l’impresa di mandare a puttane il music biz di quella decade – ma anche di quella successiva – e considerati solo da una stretta cerchia di gente con le medesime velleità orrorifiche tanto care alla band, i Butthole Surfers erano una forza della natura. Nati per essere performance nomade, senza un solo punto in comune nemmeno con se medesimi e trainati solo dal proprio essere “psicati” totali, merito/colpa dell’estrema dose di follia del leader Gibby Haynes, iperdrogato riverbero di simil-hippie in salsa hc, meta zappiano per antonomasia ed unico uomo riuscito a spaventare Al Jourgensen per quantità di fuorismo, ma non da meno i compagni di viaggio Paul Leary (vera controparte di Haynes), Jeff Pinkus e King Coffey. Più una pletora di batteriste prese e lasciate letteralmente a caso.

Come venni a contatto la prima volta con i surfisti del buco del culo è presto detto: li vidi in una puntata di Beavis And Butthead. Non vi feci troppo caso perché ero troppo piccolo ma forse nella mia mente s’annidò qualcosa, presumo proprio il nome atroce del gruppo. Svariati anni dopo ritrovai il video Who Was In My Room Last Night e questo mi diede modo di cercare il più a lungo possibile di scavare nei meandri marciti della discografia dei figli non voluti del Texas, amati tanto da Jello Biafra che da chiunque non avesse le rotelle tutte al posto loro. Non ultimi i Melvins, che ora in formazione fanno sfoggio di Pinkus, dedicando alla sua band madre persino il loro ultimo sforzo in studio “Pinkus Abortion Technician”, preso da quel “Locust Abortion Technician” di cui proprio qui dovrei parlare, tanto per ricordarvi quanto siano stati importanti questi psico nell’economia di una musica mai dritta per dritta.

In molti potranno dire che il disco per eccellenza del quartetquintetto sia, che so, “Independent Worm Saloon” (tra l’altro prodotto da John Paul Jones, ossia l’unico Zeppelin ad aver capito qualcosa dalla vita) oppure “Stairway To Steven”, ma per me resterà ora e sempre il loro terzo lavoro. Un coacervo insensato di stilemi sconclusionati atrocemente compressi in un’unica soluzione, e il fatto che funzioni è già di per sé un miracolo senza pari. Un disco così tanto spregevole ed oltraggioso da iniziare con la distruzione del classico sabbathiano Sweet Leaf divenuto qui Sweet Loaf, un’accozzaglia disturbante che prende il riff iommiano e lo sbatte in mezzo a svirgolate noise, taglia e cuci brutalizzanti e voci sparse a casaccio rendendo il brano un vero e proprio capolavoro.

In più punti è la materia industriale a farsi notare, oltre all’impossibile utilizzo della voce da parte di Haynes, che mai e poi mai sarebbe arrivato in studio con una linea vocale pronta, o anche solo un testo, cosa che avrebbe squalificato l’anima sozza del gruppo. Così dal cilindro dello sporco mago escono mazzate feroci come The O-Men, con le chitarre prima maligne e poi fatte in mille pezzi vicino al sistema Gibbytronix, calate mefitiche nello zolfo minimal di U.S.S.A o le porcate residentstiane di Hay, il tutto sullo sfondo di schitarrate abominevoli e tirate metal suonate da pagliacci corrotti nell’animo dal mercurio come Weber, Pittsburgh To Lebanon e l’assassina Graveyard, in qualche modo tutti precursori (sebbene di poco) dello stoner. Poi ci sarebbe pure Kuntz che guarda a Tom Waits e gli mostra il dito medio, facendo a pezzi canti orientali senza rispetto alcuno.

Comunque, niente di che, direte voi che non ci avete mai avuto a che fare. Però era il 1987 (okok, non fa cifra tonda, ma la versione rimasterizzata uscita nel ’99 sì, contenti?) e questo carrozzone zozzone se ne andava in giro per la Terra delle Libertà simulando rapporti sessuali sul palco e amenità ben peggiori, ben prima che a Marilyn Manson venisse anche solo minimamente in mente. Se dite “poco”, allora non sapete proprio quel cazzo state dicendo, perché questo è il vero volto dell’America degli anni ’80, dietro la patina pulita di film e pubblicità e oltre l’assassinio del punk da parte dei Black Flag. Un’altra roba proprio.

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