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Back In Time

“Wisconsin Death Trip”, un incubo che crepita sulle strade del nulla

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Gli Static-X sono crepitati nella mia vita come un fulmine globulare entra nella stanza di un malcapitato. Folgorato sulla via del nu-metal, battezzato pochi anni prima dall’avvento dei Korn, è stato proprio grazie alla Sacra Mano di Jonathan Davis che scoprii la creaturina nata dai capelli di Wayne Static (nato Wayne Richard Wells e morto troppo presto, con grande rammarico e amarezza ma non senza stupore), che se li portò sulla – dimenticabilissima – colonna sonora del film – altrettanto dimenticabile, per l’amor di Dio – “Queen Of The Damned” con il singolone strappa anima Cold. Che però sta su “Machine”, e quello fu il mio primo passo tra le fauci della macchina.

Come era mio uso feci la strada a ritroso e mi ritrovai in mano quello che mi affretto a definire come l’emblema unico ed inarrivabile della commistione tra nu ed industrial ovvero “Wisconsin Death Trip”, il che per il me dell’epoca fu grande, orgasmatronico piacere, sicché mi sollazzavo impazzito tra NIN, Ministry, Fear Factory e, di tanto in tanto, una voluminosa dose ignorante di White Zombie. Tolti i figli di Reznor tutti gli altri nomi citati fanno parte del corredo genetico di Static, Tony Campos (che poi con Jourgensen ci suonerà sul serio), Koichi Fukuda e Ken Jay. I quattro sembravano divertisti a spingere le proprie possibilità in un campo che in pratica nessuno stava sondando a dovere, tutti presi com’erano a funkeggiare e rappare scimmiottando ora i RATM, ora i Limp Bizkit. Beh, a questi quattro non fregava un cazzo di divenire gli ennesimi epigoni di Davis e figliastri, così si diedero alla macchia riemergendo nel 1999 con qualcosa di assolutamente strepitoso.

Leggenda vuole che dovremmo ringraziare Billy Corgan se Static e Jay hanno incrociato le rispettive strade sul tortuoso cammino dei club in quel di Chicago, battuti al tempo da una band chiamata Deep Blue Dream, con quel suo sound in bilico tra post punk e soluzioni indie di marca Pixies (gli anni erano quelli di “Surfer Rosa”), che tra le sue fila vide proprio il padre padrone dei Pumpkins, primo tra i due a raggiungere le vette tanto agognate. Storie postume, che raccontano di stravaganti intrecci (chi di voi non ha a questo punto sognato di sentire i due condividere un disco in età matura?) e che infine portano al Viaggio della Morte nel Wisconsin.

Un trip su cui si abbattono piogge torrenziali di chitarre mutanti e sintetizzatori gelidi che ammaccano l’auto, accompagnate da ritmiche disumanizzate e precise al millimetro su cui svetta l’ugola di Wayne, bestiale transumanza di anime dannate attraverso le corde vocali, prese dal recesso più fetido delle slum di una città cibernetizzata incastrata tra lo Stige e l’Inferno più nero. Frasi ripetute fino al vomito, piene di un dolore lancinante che sconfina nella follia ed escoriazioni della cute a contatto con le sei corde di Fukuda e di Static, capaci di far muovere l’immobilismo dronizzato di melodie in loop fino a rendere metal un impianto techno asfissiante. Perché è nella mancanza di ossigeno che fiorisce il potere infinito di questo album, condannato alla ferocia ma non scevro di melodie acri che fanno stare male come quelle di Love Dump, Bled For Days e dell’atassia grunge/doom della disperata The Trance Is The Motion, di quelle che ti tirano fuori tutto il marcio possibile ed immaginabile, come se non bastassero le immortali Push It, I’m With Stupid o l’allucinante trapano con punta in titanio della title track a costruire immense fabbriche algide che bucano un cielo colore della bile.

Ma poi, parliamoci chiaro, la maggior parte dei dischi usciti da questa Generazione X 2.0 si sfaldavano oltre la metà, coi pezzi buoni tutti nella prima e poi una serie di, chiamiamoli “scarti” e diventati ben presto dischi che uno si vergognava persino di possedere (“ma che hai il nuovo dei 40 Below Summer? E quello dei Primer 55?” “nono, guarda ti sbagli..”). Invece qua vige un tasso di perfezione incredibile che arriva a compiere vent’anni senza aver perso nulla di quello che fu in origine e, credetemi, è gran roba per un disco fondamentalmente nu-metal. 

La nota amara (se escludiamo la morte del frontman) è che la vena creativa degli Static-X si è esaurita nel giro di due dischi e mezzo – se in un atto di bontà salvassimo qualcosa da “Shadow Zone” – lasciando quel tipico rimpianto che solo questi gruppi possono lasciare. Ma il solco scavato da “Wisconsin Death Trip” si è riempito di un liquame denso al punto da lasciare tutto com’era in quel lontano 1999. Micidiale, feroce, malvagio. Splendido.

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