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“Frogstomp”, il sole del grunge sorto altrove

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Era la prima metà del 1995, e noi adolescenti brutti ed arrabbiati avevamo ancora sul viso le lacrime che sapevano di Kurt Cobain, e di quel colpo di fucile che si era tirato solitario meno di un anno prima. Era il 1995, e credevamo di morire musicalmente ancora prima di poter diventare adulti, vedendo in “Vitalogy” dei Pearl Jam una sorta di ultimo testamento, immaginando (fortunatamente a torto) che forse pure i Eddie Vedder ci avrebbe lasciato per trascendere al Valhalla del grunge, assieme agli altri. Quel che ignoravamo, è che se il sole era forse tramontato dietro la linea dell’orizzonte Pacifico, un nuovo giorno invece stava sorgendo in Australia, e quel “nuovo giorno” si chiamava “Frogstomp“, primo album di tre ragazzini quindicenni: Ben Gillies, Daniel Johns e Chris Joannou, conosciuti come Silverchair.

Ricordo come fosse ieri di aver letto al loro riguardo su una rivista musicale per l’uscita del medesimo album, e di essere corso (quindicenne anche io) al negozio di dischi di fiducia per comprarlo immediatamente in cd. Non ricordo bene cosa mi aspettassi, ma probabilmente quello di sentire Kurt più vicino, il grunge di nuovo scorrere nelle mie vene e ringalluzzire la mia rabbia adolescenziale d’ordinanza. Fui però inizialmente spiazzato. “Frogstomp” era qualcosa di tremendamente grunge, ma data l’età anagrafica della band, il tutto era portato ad una dimensione più vicina a quelle che potevano essere le disgrazie ed i patemi di un quindicenne, che in quella più adulta dei Nirvana. Questo spiazzò molti a dire il vero, ed infatti molti subito non compresero lo spessore di quel trio australiano, snobbandolo o non ritenendolo abbastanza pesante, o distorto. Alla peggio, meri cloni del più famoso trio di Seattle.

In realtà sul piano musicale, “Frogstomp” è un disco che porta in se tutti gli elementi più alti del grunge, eseguiti tuttavia senza mero spirito “da pappagallo”, ma rielaborati e personalizzati. Chitarre distorte, giri di basso tosti, oppure semplici ma incisivi e batteria che spacca. Anche la voce di Daniel Johns risulta perfetta nel contesto sonoro. Allo stesso modo, i testi narrano appunto di rabbia, violenza, paranoie puramente adolescenziali, suicidio causato da esclusione e bullismo. Il tutto con quella semplicità mista ad un pizzico di ermetismo caratterizzante sia di Kurt Cobain che di Eddie Vedder.

Insomma, avere tra le mani “Frogstomp” fu qualcosa di così bello per essere vero che molti, davvero troppi, non vi credettero abbastanza. Per avere infatti un riscontro maggiore, il trio dovrà aspettare “Freak Show” del 1997, consacrandosi infine con “Neon Ballroom” del 1999, che tuttavia ne sancirà anche la vetta massima prima del declino. Forse anche loro in fin dei conti non ci credettero abbastanza, o rimasero spiazzati da quel successo inaspettato ma mai esagerato. Oppure, semplicemente, avevano la stoffa per seguire l’onda del grunge ma non per cavalcarla a loro volta in prima linea, lasciando il posto agli immortali Pearl Jam e quindi ai neonati Foo Fighters.

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