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Blixa Bargeld, Luciano Chessa, Fred Möpert , Opening Performance Orchestra – The Noise Of Art: Works for Intonarumori

2019 - Sub Rosa
noise / sperimentale

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Tracklist

A1. Opening Performance Orchestra + Blixa Bargeld: The Noise of Art (2017)
A2. Opening Performance Orchestra: Trio n°3 (2017)
B1. Luciano Chessa: Prilis hluena samota (2017)
B2. Opening Performance Orchestra: Trio n°2 (2017)
C1. Fred Möpert: Neue Horizonte (2017)
C2. Blixa Bargeld: The Mantovani Machine, pt3 (2013)
D1. Opening Performance Orchestra: Futurist Soirée (2016)


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Se noi dovessimo identificare la corrente del futurismo, sarebbe inevitabile rifarsi a quei nomi che sostanzialmente costituiscono il movimento (mi riferisco a Marinetti, Boccioni, Balla, Severini, Depero e compagnia bella). Come sarebbe inevitabile non rifarsi a quel periodo battezzato col nome di “fascismo”. Se poi dobbiamo ulteriormente vedere che tipo di risonanza ha avuto questa corrente artistica su determinati personaggi odierni (e non solo di “oggi”), allora la questione si complica, lasciando entrare elementi spuri come può essere il gusto personale, la posizione politica per questo tipo di corrente, l’eventuale consenso/dissenso. Ricordo che per il trentennale del gruppo Einsturzende Neubauten, Bargeld e co. Decisero di performare “Let’s do it A Dada”. Ecco, dopo aver letto e interpretato i versi onomatopeici di Marinetti, Bargeld chiama all’appello il pubblico italiano (il concerto era all’Estragon) chiedendo: “Come sta il Duce?” – chiaramente ci fu un boato (come quei boati – anche solitari, perché no? – dell’ “italiano in gita” all’estero quando sente un classico “buongiorno principessa” o “spaghetti e mandolino”). Il tutto era poi seguito anche da una serie di riti canzonatori per quelli nelle prime file del pubblico che inneggiavano al rock’n’roll (Bargeld ironicamente diceva che avrebbero eseguito molti brani di Bo’ Diddley, Chuck Berry, ecc. con la tipica simpatia teutonica esportata in tutto il globo). Insomma, quel riferimento e quella supponenza molto mitteleuropea mi infastidirono per più motivi. In realtà il motivo principale era solo il fatto che, in quanto italiano, non accettai la critica, la “presa per il naso”  con il riferimento ad un periodo particolarmente oscuro, sfaccettato e allo stesso tempo interiorizzato dalla civiltà dello stivale, sul quale, io ritengo, non sia lecito scherzare (come su tanti altri periodi oscuri).

Ma ecco che, a distanza di anni, e non proprio con immensa sorpresa, vedo l’invenzione di questo collettivo The Noise Of Art (il riferimento è lampante) che reinterpreta nientepopodimeno che Luigi Russolo, il grande inventore dell’intonarumori (eccola qua, la primigenia arte del rumore). Diciamo che, anche secondo la distinzione di Attali, tra il rumore e la musica, lo scarto che esiste, è esclusivamente culturale, non “ontologico”. Ovvero, quanto rumore sei in grado di interpretare come musica? Questa è l’unica domanda che tutti dobbiamo farci (se interessa chiaramente). In questo caso, i rumori di cui si parla non sono propriamente quelli generati da meccanismi particolari. Parliamo infatti sempre di laptop che costruiscono tre intonarumori attraverso particolari processi in cui ognuno dei musicisti (Bargeld, Chessa e Moeterp) suonano indipendentemente.

Progetto esoterico di revival, se non addirittura di riesumazione di quelle che erano nate provocatoriamente come un’altra estetica, molto estetica, che tocca le corde della percezione attraverso uno scontro sonoro che scuote dal basso. Chi ha poi voluto collegare quello che è stato il movimento futurista, con tutti i suoi distinguo del caso, è in verità molto lontano dal ready-made, dal dada, da tutto quello che ha fatto del concetto la spinta propulsiva dell’arte. Forse la strada intrapresa da Bargeld & co. Ha proprio colto lo spirito “punk” dell’epoca, la sua anima “rock”. Da qui il mio dissenso verso lo snobismo nei confronti del “rock”, parola tanto piena quanto vuota (come sempre di più lo sono le parole oggi) che indica un mondo così sconfinato da scoprire l’inadeguatezza del termine.

Questo era l’aspra critica ad una società, ad un modo di pensare. Anzi, ancora oltre, poiché voleva rifondare una società secondo “ideali” futuribili. Ricordiamo la provocazione per cui si dovrebbe apprezzare molto di più la bellezza di un motore dentro il cofano di una macchina piuttosto che l’eleganza vetusta della Nike di Samotracia. Sia chiaro, si può essere d’accordo o meno, ma questo gesto – nato da pochi, seguito da pochi e poi introiettato nella società tutta in maniera convenzionale, naturale, spontanea che diventa poi pubblicità, consumo, rumore commerciale, appunto – è stato un’arma contro l’altro rumore: quello dell’omologazione, quel brusio dell’accettazione dei canoni che faceva ribrezzo alle menti creative. Ecco, se si fosse saputo che quel rumore sarebbe diventato un altro rumore (il brusio della noia, appunto, del consumo, della rincorsa ai capricci), avrebbero probabilmente inventato l’arma del silenzio. Ma anche qui, si è aperta un’altra voragine, un’altra storia di altri rimossi reintegrati.

 

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