1. CHOOSE GO!
2. GREAT JOB
3. I’m Me
4. Wintime
5. THIS IS CHAI
6. Fashionista
7. FAMILY MEMBER
8. Curly Adventure
9. Feel The BEAT
10. Future
Sarò sincero: le Chai mi mettono in difficoltà. Ascoltando il loro secondo album intitolato “Punk”, sono stato subito travolto da un mare di sensazioni contrastanti e domande cui probabilmente non riuscirò mai a trovare risposta. Un’unica certezza: queste quattro ragazze provenienti da Nagoya, Giappone sono davvero, davvero adorabili. Quanta innocenza nella scelta del look, tutto incentrato sui toni del rosa; quanta “coccolosità” nello stile della cantante Mana, ideale anello di congiunzione tra Yasuko Onuki dei Melt-Banana e Pikachu.
Da un punto di vista prettamente musicale il quartetto, pur non inventando nulla di nuovo, suona fresco e originale. Se questo disco fosse commestibile, probabilmente avrebbe il sapore di una dolcissima coppa di gelato variegato all’indie/electro-pop con appena qualche scaglia di rock. Il sottile strato di glassa punk che avvolge le energiche CHOOSE GO! e GREAT JOB si scioglie come neve al sole quando le Chai aggiungono al piatto massicce dosi di j-pop.
Fate attenzione: la tenera stucchevolezza dei ritornelli di Wintime e I’m Me – che vorrebbe essere un manifesto femminista ma, almeno per quanto riguarda i versi in inglese, sembra il tema di una bambina di terza elementare (What a cute girl you are!/Everybody’s wonderful/All right!) – potrebbe causare difficoltà digestive.
A salvarci i denti dalla carie è il piglio lo-fi che accomuna tutti i dieci brani dell’album. Una produzione scarna e attenta a non aggiungere nulla più del dovuto – e non è cosa di poco conto, considerando la tendenza al magniloquente che imperversa tra tanti gruppi giapponesi – conferisce al lavoro un ottimo retrogusto da dimensione live, che funziona particolarmente bene quando le quattro giovani di Nagoya tentano la via di un dance-punk ricco di groove e leggerezza (Fashionista, FAMILY MEMBER e THIS IS CHAI).
Pur essendo un’opera curiosa e carina, “Punk” porta già le stigmate del tradizionale guilty pleasure che, se recuperato tra qualche anno, potrebbe spingere i più a porsi il fatidico quesito: «Ma davvero una volta ascoltavamo questa roba?».