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“Doolittle”: se l’uomo è cinque e il diavolo è sei, i Pixies sono sette

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Indovinello: cos’hanno in comune dei vagabondi alcolizzati e la bibbia? Se avete risposto “entrambi raccontano un sacco di fandonie”, siete delle brutte persone. Ci sono un sacco di barboni alticci ma onesti, là fuori. Se avete risposto “Doolittle” invece, beh…congratulazioni. Nel capolavoro del 1989 (4AD Records), i Pixies dedicano ai sopracitati due singoli indimenticabili, riconoscibili in una manciata di secondi da chiunque abbia fatto almeno un rinnovo della patente di guida: Here Comes Your Man e Monkey Gone To Heaven. Ma “Doolittle” è molto più di questo: è surrealismo, prostituzione, leggende giapponesi, prostituzione, disastri ecologici ed altra prostituzione. Non sorprende dunque che il titolo originale pensato per l’album fosse “Whore” (“puttana”). Ma, come ammesso dallo stesso Black Francis, “la gente avrebbe pensato che sono una specie di estremista anti-cattolico o uno che è stato cresciuto ultra-cattolico ed ora si sfoga commettendo ogni sorta di indecenza. Una scimmia con l’aureola in copertina ed un titolo del genere avrebbero portato solo rogne senza senso”. Il frontman, nato Charles Michael Kittridge Thompson IV (non che sia importante, ma è un dettaglio troppo colorato per essere omesso), ci spiega dunque che i Pixies non sono certo una squadra di attaccabrighe, ma al massimo – come suggerisce il nome stesso della band – delle creature maliziose, più incomprese che altro. Accantonata l’opzione “Whore”, arriva così il ben più docile “Doolittle”, riferimento al noto dottore in grado di parlare con gli animali e citato nell’uptempo di Mr. Grieves (“Pray for a man in the middle / One that talks like Doolittle”). Perché proprio questo personaggio? Non ci è dato sapere, ma meglio non rimuginarci troppo sopra considerando che il nome “Mr. Grieves” nasce in quanto rima con “belief”. Eh già, i Pixies sono anche questo: nonsense sovversivo ed ammiccante. Lo stesso Francis ci allerta dal cercare un significato per ogni estrosità: “Perché no? Non si tratta mica di scrivere un articolo scientifico dove uno più uno fa due”. Come dargli torto.

Per apprezzare a pieno la grandezza di quest’album, è prima di tutto fondamentale collocarlo nel tempo: “Doolittle” prende forma alle porte degli anni Novanta, a poco più di una decade dall’esplosione del punk (Black Flag, Clash, Ramones, Sex Pistols, …), qualche annetto dopo lo sviluppo della sua variegata progenie (Hüsker Dü, Jesus & Mary Chain, Talking Heads, Violent Femmes…) ed in contemporanea alla nascita del grunge, di cui Tame e Gouge Away sono un eccezionale documento primordiale. Arriva poi solamente un anno dopo “Surfer Rosa” (1988), un disco che – per quanto ricco di episodi eccentrici e sperimentali – era già riuscito a raggiungere il grande pubblico con brani quali Gigantic e Where Is My Mind?, iniziando così il processo di cultizzazione della band che giungerà a compimento proprio con l’iconica mixture di testi malsani, melodie pop ed energia punk di “Doolittle”. Un nuovo linguaggio rock, dunque, che influenzerà in maniera pesantissima (e per ammissione degli stessi, vedi sotto) i debutti di Nirvana (“Nevermind”, 1991), Pavement (“Slanted And Enchanted”, 1992), PJ Harvey (“Dry”, 1992) Radiohead (“Pablo Honey”, 1993), Weezer (“Weezer – Blue Album”, 1994) e Modest Mouse (“Lonesome Crowded West”, 1997), cambiando così per sempre la storia della musica rock. Ma influenzare rockers alle prime armi, per quanto la lista sia lunga ed appetitosa, è cosa già sentita. Influenzare le proprie influenze? Quello sì che ha dell’incredibile. A tal proposito, consiglio un ascolto didattico di Bowie pre e post “Surfer Rosa”/“Doolittle”, specie guardando alla curiosa parentesi Tin Machine: vi sarà chiaro come nemmeno il Duca Bianco fosse immune all’originalità dei Pixies.

“In Smells Like Teen Spirit abbiamo provato a derubare i Pixies. Lo ammetto. La prima volta che li ho ascoltati ho connesso con la band così profondamente che avrei dovuto essere in quella band, o se non altro in una loro cover band. Abbiamo adottato le loro dinamiche, in cui il suono è prima delicato e tranquillo, poi improvvisamente ruvido e rumoroso.” Kurt Cobain in un’intervista per Rolling Stone, 1993.

Una cosa, però, va detta: il successo internazionale dei Pixies è in parte merito di tale Gil Norton, produttore inglese di grande sensibilità pop reduce da precedenti collaborazioni di spessore, tra cui gli Echo & The Bunnymen di “Ocean Rain” (1984). Il colpo di genio attribuibile a Gil è stato quello di includere nel disco brani più tipicamente easy-listening come Here Comes Your Man e Wave of Mutilation, che sedevano inutilizzati sotto il materasso di Black Francis da anni.

Il risultato finale è un disco molto più accessibile di “Surfer Rosa”, con 15 tracce-lampo ciascuna meritevole di essere un singolo. In più, “Doolittle” è pieno zeppo di momenti iconici del bizzarro universo Pixies: si pensi al francese tanto arrugginito quanto autoironico dell’intro Debaser (“I am un chien! Anda-luuu-sia!”), al “Rock me, Joe!” di Monkey Gone To Heaven, allo “spanglish” di Crackity Jones (“He got friends like Pacro Picopiedra / La Muneca”), a La La Love You, uno dei brani più assurdi di sempre, i cui fischi, “yeah” e coretti di sottofondo (che, giusto per essere chiari, cantano “First base, second base, third base, home run!”) mettono in discussione e ridicolizzano l’intero concetto di canzone d’amore. O ancora a Hey, i cui dieci secondi introduttivi sono sufficienti per domandarsi se il quartetto venga effettivamente da Boston, Massachusetts, e non da un altro pianeta.

Nell’era dell’apparire, dove un paio di sneakers può fare la differenza tra un signor nessuno e un headliner del Coachella, celebrare una band guidata da un ragazzotto paffutello e mezzo stempiato, tanto menefreghista all’apparenza quanto originale e genuina, è cosa buona e giusta.

Si pensi al cinema surrealista di Luis Buñuel e Salvador Dalì menzionato in Debaser a confronto delle grandi produzioni hollywoodiane. Quel brivido? È lo stesso che genera l’oggi poco più che trentenne “Doolittle”. Un documento prezioso, quasi religioso, emblematico di creatività ed onestà intellettuale. Sai cosa penso? Che se l’uomo è cinque e il diavolo è sei, i Pixies sono sette.

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