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“Damnation”, in sospensione eterna nel purgatorio degli Opeth

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Il 2003 è stato uno dei tanti momenti strani ed intasati di musica della mia vita. A 17 cercavo sempre più di rifugiarmi nell’elettricità e nel suo uso e modo più violento, ma tre anni prima avevo sperimentato qualcosa di diverso con gli A Perfect Circle ed i Radiohead e non potevo più prescindere dalla melodia, anche in un inequivocabile disastro di rumore e ferocia. Trovato casa mia nel black metal perché sepolte c’erano proprio delle melodie che facevano al caso mio, ma le mie anime erano troppe e finivo per spingermi in ogni direzione divorando tutto.

Finii anche per imbattermi negli Opeth, l’anno prima. Li trovai davvero anomali, perché se c’era qualcosa che non avevo mai digerito quello era il death metal, che trovavo vuoto ed inconsistente, pieno zeppo di inutile machismo e fine a sé stesso, ma privo del nichilismo punk che permeava molte altre creazioni che nel metal estremo trovavano la propria residenza ultima (i Death però erano altra cosa, pleonastico persin dirlo). Eppure quel gruppo svedese aveva qualcosa, ci metteva quella spinta progressiva che mi aveva accompagnato per tutta la durata dei miei anni di gioventù pre-2000. Mi piacevano eccome, anche quando spingevano sull’acceleratore, ma mi resi presto conto che erano le parti cosiddette “clean” a farmi fuori. Così quando uscì “Damnation” e lessi quel che era lo comprai subito, e mi decapitò al primo ascolto.

Non è sbagliato intenderlo come un album progressive rock, eppure era tanto altro. Nelle sue pieghe leggiadre sembravano nascondersi fantasmi che guardavano dritti verso gli Stati Uniti, nella mia testa un po’ a Seattle e un po’ sotto il tappeto steso da Billy Howerdel. Che fosse così o meno nella realtà poco mi importava, il settimo album in studio della band – o settima sperimentazione come scrivono nelle linear notes – mi aprì alla consapevolezza che da quel momento in poi gli Opeth avrei voluto sempre sentirli così: nudi, eterei, aperti. Tristi, ma senza quella necessità di abbaiare nel microfono per spingersi all’inferno. “Damnation” era un purgatorio, un luogo d’attesa e sospensione eterna, sin dalla copertina, che mischiava sotto e sovraesposizione in un bianco e nero impresso su una pellicola sviluppata nel liquore dell’amarezza senza fine.

Mi serviva, eccome, leggere i testi che languivano in questa situazione di abbandono ed arrendevolezza fatta di spettri che abbandonano luoghi, oppure siamo noi a farlo accogliendo in noi una disgrazia ed una tenebra che è lì per restare. Al contempo fu lì che venni a conoscenza della figura di Steven Wilson, che imparai a mie spese non piacermi granché, ma il lavoro che fece con Mikael Åkerfeldt fu inestimabile. Il leader dei Porcupine Tree parve riuscire a setacciare i sentimenti del gruppo fino a trovarne l’essenza, oltre al fatto che i suoi Rhodes e Mellotron diedero il tocco finale, spesso prog, ma in fin dei conti accompagnamento filtrante del boccone amaro di cui sopra.

Perdetti la testa per Windowpane, ci sentii persino il riverbero incessante della parte Lanegan degli Screaming Tree, le chitarre flebili di Åkerfeldt e Peter Lindgren si sposavano al soffio della sua voce, incorniciando momenti di deriva lacrimale come To Rid The Disease in una corona radiata di venefica sconfitta (sottolineata dal bellissimo bridge di piano di Wilson). Eppure ci trovai anche aggressività acustiche che non credevo possibili, con quella Closure che col suo incedere mediorientale a schiantarsi su scogli tutti punte e sirene spettrali mi mandò ai matti. Il colpo di grazia e il seguente pianto in cui proruppi sentendo quel “Hold me, show me, take me to my home” soffiato nel microfono e filtrato in effetti radio nella finale Weakness. Sprofondai.

Non lo ascoltavo da anni, “Damnation”, perso nella delusione a cui mi sottoposero gli Opeth di lì a breve (troppo indecisi nel loro amore pedissequo per rock seventies e death non ottuso ma comunque capace di rattrappire tutto il buono che c’è qui), eppure rimettendolo su oggi, a sedici anni di distanza, provo le stesse cose, nonostante io sia radicalmente cambiato. Forse qualcosa rimane sempre lì, come quell’oscurità di cui i quattro cantarono in queste poche tracce da sogno.

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