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“Digimortal”, non si possono uccidere le macchine

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30 settembre 2000. Burbank, California, Stati Uniti d’America. Il cielo sopra gli Ocean Studios è del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto. All’interno di una delle sale d’incisione della struttura che affaccia su San Fernando Boulevard si trova una band composta da quattro individui sulla trentina. Sguardi truci, tatuaggi a iosa, forma fisica da rivedere. Si chiamano Burton Christopher Bell, Dino Cazares, Christian Olde Wolbers e Raymond Herrera: i Fear Factory.

Sono appena arrivati per dare il via ai lavori sul successore del loro terzo album, “Obsolete”. Un macigno industrial metal a tema cyberpunk, lodato dalla critica e ben accolto dal pubblico. Con un solo, minuscolo difetto: il suo singolo di punta, Cars, è una cover. Una cover di una hit new wave del 1979 firmata da uno dei cantanti preferiti di Bell, Gary Numan. Un brano smaccatamente pop. Farcito di chitarroni e rullanti triggerati, certo, ma pur sempre smaccatamente pop.

Paradossalmente, non il miglior biglietto da visita per un quartetto pronto a lanciarsi nell’agone del mainstream. Il motivo? A dominare le classifiche di inizio millennio è un genere che, nonostante l’ampio spazio riservato alle melodie, non va troppo per il sottile quando si tratta di maltrattare i timpani degli ascoltatori: il nu metal. Per non soccombere alle cannonate di una moltitudine di nuove leve cresciute anche (se non soprattutto) con la loro musica, i Fear Factory decidono di abbracciare la moda del momento.

Dopo anni trascorsi a parlare dell’eterna lotta contro l’invadenza della tecnologia, della resistenza al potere annichilente delle grandi corporazioni alla guida dei mondi distopici immaginati da William Gibson, Bruce Sterling e Pat Cadigan, i quattro cybermetallari di Los Angeles cedono al richiamo delle zaibatsu che regolano il mercato discografico. I dieci brani che vengono registrati finiscono quindi per essere più snelli, semplici e radio friendly rispetto al passato. Ma non per questo meno incisivi.

Il 24 aprile 2001 il mondo scopre “Digimortal”. Un altro concept album, questa volta dedicato all’ambigua compenetrazione tra uomo e macchina. Un argomento ricchissimo di spunti letterari e cinematografici. Interessante e degno di essere analizzato in maniera approfondita. Se il tuo nome è David Cronenberg, Neal Stephenson o James Graham Ballard, tanto per citare tre nomi di esperti del settore.

Non me ne voglia il buon Burton C. Bell, ma non si può certo dire che l’aspetto narrativo rappresenti uno dei punti forti dell’album. I testi non lasciano quasi mai il segno, a esclusione di qualche frammento sparso qua e là. Mi riferisco nello specifico a un paio di hook talmente memorabili da essere diventati, almeno per quanto mi riguarda, una sorta di simbolo dell’intero lavoro: il ONE STEP! “vomitato” nell’apertura  della title track e il CAN’T TAKE ME APART! urlato a pieni polmoni in Linchpin.

Quest’ultimo rappresenta un grido di battaglia che, nel contesto del racconto, può essere interpretato in due modi differenti: un ultimo rigurgito di orgoglio dell’uomo che, sempre più succube delle nuove tecnologie, rivendica il diritto di “non essere fatto a pezzi” dalle macchine, pronte a fagocitarlo e trasformarlo in un androide; un terribile monito delle macchine che, coordinate da un’immensa, indistruttibile intelligenza artificiale (We are one, and of the same future machine), promettono un sogno di pace e benessere attraverso la “digimmortalità” (We will never see the end/We will never be the end).

Da che parte schierarsi? I Fear Factory fanno ben poco per aiutarci a prendere una posizione. La loro visione del futuro è confusa, sterile e, alla lunga, alquanto mediocre. L’approccio al nu metal è stereotipato e privo di inventiva: tanti riff sono elementari e caciaroni, le parentesi rap suonano forzatissime (Back The Fuck Up, la collaborazione con B-Real dei Cypress Hill, è tremenda sin dal titolo) e l’utilizzo dell’elettronica e delle tastiere (a occuparsene è il produttore Rhys Fulber, membro storico dei Front Line Assembly) sembra datato anche per il 2001.

A fronte di numerosi ritornelli di facile presa (What Will Become, le già citate Digimortal e Linchpin, la semi-ballad Invisible Wounds), vi sono altrettanti passaggi melodici che rappresentano un’involuzione rispetto a quanto fatto in “Obsolete”: nei suoi sette minuti di durata (Memory Imprints) Never End, che cita in modo abbastanza spudorato i Korn (così come fa la pesantissima Hurt Conveyor), non fa davvero nulla per lasciare impronte nella memoria.

Una caratteristica che, in fin dei conti, è comune a quasi tutti gli undici brani di “Digimortal”: un album decisamente meno brutto di come venne dipinto da troppi critici dell’epoca, ma non per questo degno di una rivalutazione che vada oltre i suoi pochi pezzi forti (Linchpin, Digimortal, Damaged, What Will Become…e basta, direi). Un flop commerciale che, neanche un anno dopo la sua pubblicazione, finì per essere addirittura letale per i Fear Factory. Ma è impossibile uccidere definitivamente le macchine. La fabbrica della paura sarebbe presto tornata in funzione, seppur priva di uno dei suoi ingranaggi fondamentali: il riffmaster Dino Cazares.

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