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Back In Time

Back In Time: ISIS – Wavering Radiant (2009)

È tutta una questione di cuore, sì, di sentimenti insomma. Quel 17 luglio di ormai dieci anni fa, sotto un cielo torinese che imbruniva lentamente vedevo sorgere gli Isis in tutta la loro immensità. Una macchina perfetta che ha attraversato gli anni Zero fino a giungere lì, alla loro fine imminente, pronta ad un passo, eppure tutto sembrava perfetto. Tutto tranne “Wavering Radiant”.

Perché? Semplice, perché meno di tre anni prima uscì “In The Abscence Of Truth”, e quel disco poteva voler dire davvero solo due cose: o la fine (magniloquente) o una rampa di lancio verso l’infinito. Forse una delle due cose si è avverata, forse no. Forse ambedue. Intanto quando infilai quello che sarebbe stato l’ultimo disco di Harris, Caxide, Turner, Cliffor Meyer e Gallagher, beh, ci rimasi male. Molto male. Il perché è scritto all’inizio di questo capoverso. Non potevo accettare nulla che fosse meno intenso, forte e straziante di quanto fu per me il quarto album di questo gruppo eccezionale. Semplicemente non potevo. E non lo feci.

Ma, come dicevo, è una questione di sentimenti e viscere, che si muovevano, e così nella materia junghiana dei testi mi mossi con calma. Poi lo lasciai lì, a prender la polvere. Ma quella sera tutto gira attorno a “Wavering” e le percezioni cambiano, ed è colpa loro, che sono perfetti, eppure la distanza tra quei pezzi e quelli del recente passato è abissali. La colma il mostro che si muove nelle interiora e nel limbo della veglia di chi assiste a concerti di tali proporzioni. Qualche giorno fa, ricordando l’album assieme ad un amico è venuto fuori qualcosa. Per lui il disco negli anni era cresciuto, io dissi di no. Inizialmente sostenni la linea, ma poi mi addentrai in questo tunnel luminescente posto negli abissi dell’anima e ci ritrovai qualcosa. L’immagine di Caxide che roteava – pur immobile – col suo strumento, e la voce di Turner. La voce di Turner, che mai più l’avremmo sentita così, non in un suo progetto principale, troppo intento a dimostrarsi metalhead privandoci così di qualcosa di impagabile.

Risalendo a galla quel bolo di luce si schiude e mi ricorda che Ghost Key è disperazione allo stato puro e mi consuma dall’interno, col suo bridge stellare con il basso liquido che scende giù per la spina dorsale e le chitarre e i synth a danzarci attorno e sempre Turner che grida furioso e poi spicca un volo icariano. Che Hall Of The Dead – pezzo con cui si aprì quel concerto – è sublime, tutto lì, e c’è Adam Jones, secondo Tool da queste parti (che se c’era una band che poteva competere con l’intensità di MJK e soci questi erano solo ed esclusivamente gli Isis). Che il disco suona arido come non mai, che Joe Barresi ha portato una prospettiva diversa del loro verbo post-metal e quando Stone To Wake A Serpent esplode e poi torna ad acquattarsi nel buio fa male, tanto male, quasi quanto Hand Of The Host e la batteria ad incudine di 20 Minutes / 40 Years, che poi questo lavorone di ambience è tutto merito di Bryant, che furoreggia e si prende tutti gli spazi possibili. Dio se fa soffrire. Dio se va bene così.

Ma è il cuore a parlare, perché è il loro lavoro “peggiore”, è un addio stentato, è la fine affrettata, d’altronde, Jeff dixit, gli Isis avevano già detto e fatto tutto ciò che dovevano fare. Ed è tutto vero, non c’era altro da aggiungere. È un biglietto d’addio lasciato in una casa in perfetto ordine, una casa piena di ricordi e lacrime, di rabbia con cui abbiamo tappezzato le pareti. Lasciamola così com’è, lasciamo fuori la testa e non pensiamoci più. È andata così, perché è così che doveva andare.

Non basteranno tutti i Sumac e i Palms del mondo a colmare questo vuoto.

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