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Fox Millions Duo – Biting Through

2019 - Thrill Jockey
sperimentale

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Tracklist

1. Biting Through
2. Clasp
3. Nine Years Of Facing A Wall
4. The Gulf
5. Wealth
6. Be


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La mia stima per Greg Fox nasce ovviamente dal mio amore incondizionato per i Liturgy, e ho finito per annoverarlo tra i batteristi di natura schizoide per i quali provo un’innata simpatia, leggi Zach Hill, Gabe Serbian, Tim Alexander, Ches Smith, Jacopo Battaglia, Joey Baron e Kid Millions (solo per citarne alcuni). È proprio con John Colpitts – in forze agli Oneida che invece è da un pezzo che mi hanno annoiato, purtroppo – il buon Fox si era già unito nel 2015 per dar vita al Fox Millions Duo, mandando in stampa un primo album.

Non nascondiamoci dietro ad un dito, “Biting Through” ha quel retrogusto della “roba da smanettoni” e, forse forse, anche “for drummers only”, ma sarebbe quantomeno ingiusto fermarsi qui. Altri esperimenti simili sono stati affrontati nella musica di recente composizione, vedi “Drumgasm” del trio delle meraviglie Weiss/Cameron/Hill, ma a differenza dell’infinita “drum battle” ad opera dei membri di Hella, Soundgarden e Sleater-Kinney, qui c’è un lavoro compositivo ben diverso, anche se sempre nell’ambito della free-form.

Il sapore di questo piatto difficile da digerire è di quelli sinteticamente algidi, in certi punti persino maligni, e a saltare all’orecchio non è solo il quoziente tecnico dei due percussionisti, quanto una voglia di esplorare ambiti inchiodati tra noise, space, d’n’b di laswelliana memoria e textures piuttosto feroci. Il suono d’insieme sembra risentire dell’ambiente in cui il tutto si è generato, ovvero lo studio di Colin Marston, che è sì membro dei pazzeschi Krallice, ma anche frequentatore assiduo di quelle branche del metal che tengono il calore ed il groove lontano mille miglia da sé. Per un lavoro di batterismo puro questo potrebbe risultare come un punto debole da queste parti si tramuta in un “di più”, complici synth modulari (e chi ne mastica sa che essi creano suoni unici e difficili da replicare) e microfoni ambientali strofinati sui rispettivi drum-kit, al fine di generare follia.

Ci si ritrova per le mani dunque qualcosa che in più punti riporta alla mente un misto singolare di Battles e Sam Prekop (Wealth, The Gulf), sferraglianti venti post-noise influenzati da “The Ark Work” (una su tutte la title-track) e marcette spaziali debilitanti dalle parti dei Matmos più inaccessibili (Clasp).

Più in generale è seriamente difficile arrivare in fondo a questo esperimento se non si amano tutti questi ingredienti in generale e, va da sé, un inteso lavoro dietro le pelli, seppur nella sua accezione più – è proprio il caso di dirlo – estrema. Nel suo essere musicale (più o meno) è pur sempre una lamata che ci si può permettere di prendere una volta sola, a proprio rischio e pericolo. Che sia fine a sé stesso non c’è nemmeno da dirlo.

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