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Interviste

Intervista agli HOUSTONES

Houstones

Abbiamo incontrato gli Houstones, trio italo-svizzero tornato di recente in scena con il nuovo album “Perimeter” (qui la nostra recensione), uscito a marzo su Dreamingorilla Records / Entes Anomicos / Soppressa Records.

Per cominciare dove vi siete conosciuti voi tre: Saul, Eveline e Joel?
Saul: Gli Houstones nascono con una formazione diversa, solo io sono rimasto della prima, il precedente trio si è sciolto e perciò ho cercato altri con cui suonare. Chiesi ad un mio amico chitarrista (Ronnie Rodriguez di ‘RisonanzaRec’) se voleva suonare e tirammo in mezzo Joel. Dopo il primo disco in due, abbiamo affisso un cartello ‘cercasi bassista’ e dopo due anni è arrivato il messaggio di Eveline: amore al primo ascolto!

Quali i vostri trascorsi in campo musicale prima di Houstones e quale la scintilla che ha innescato questa passione?
Saul: io ho registrato circa 3-4 album da solista, ma solo con gli Houstones ho iniziato a fare le cose in maniera meno amatoriale. Joel viene dal panorama grind e il giro della ‘L’è Tütt   Folklor Records’ e ‘Insonnia Isterica’ che sono alcune delle realtà più interessanti e più internazionali del Ticino. 
Eve: ho iniziato a suonare a 10 anni proprio perché con un’amica volevamo formare una band, da quel giorno ho sempre fatto parte di un qualche progetto musicale dove ci si trovava per comporre musica o riproporre cover da suonare. Fino ad oggi ho suonato piu o meno con una decina di gruppi e con alcuni di essi tutt’ora ci troviamo…

Essendo di base in Svizzera, come vi appare il panorama musicale elvetico; seguite band locali andando ai loro concerti, oppure vi muovete oltre confine avendo vicine tante città estere?
Saul: Naturalmente, sì. Inoltre in Ticino, rispetto al numero di abitanti c’è molta gente che suona. Ovviamente non è tutto rosa e fiori; la cover band di Vasco c’è anche qui. Esistono band molto interessanti e anche eventi rilevanti, come il ‘Busker Festiva’l di Lugano e il ‘Mono Bar’ di Locarno che organizzano bei live. Il problema principale per una band, che come noi fa un sacco di casino, è riuscire a suonare con una certa costanza. E’ pur vero che, come dice Buzz dei Melvins, “se il tuo live fa schifo, non suoni in giro”, e magari è quello il problema. Comunque, essendo vicini a Milano, il polo più attrattivo rimane quello per i grossi concerti.

Come descrivereste il pezzo “Panta Ray” dal punto di vista musicale e relativo al testo? 
Saul: Il testo parla di una ragazza con la quale ci stavo provando e siccome non ho il fisico di un divo di Hollywood, cercavo di intortarla con robe filosofiche. Musicalmente, invece, l’idea è stata di fare un brano con pochissimi accordi e ridondante. Penso che ci siamo riusciti anche troppo.

Siete appassionati di lettura? Un titolo ciascuno di un book preferito…
Saul: non leggo un libro da tipo 15 anni. Comprati moltissimi, letti/finiti 0.
Eve: non sono appassionata di lettura e probabilmente proprio per questo motivo non ho un libro preferito. Solitamente mi capita di leggere un libro quando vado in vacanza…forse perchè è l’unico momento in cui mi stacco dallo strumento e mi dedico ad altre cose.
Joel: Sto leggendo “Doctor Reset” scritto da Dario Neron. Un giovane scrittore nostrano con seri problemi mentali alla Palahniuk/Bukowski.

Dall’ascolto di Perimeter ho ricevuto una moltitudine di sensazioni, certo emotive (una forte connessione tra interpretazione del testo e la messa in musica), ma pure culturali relative a tematiche odierne interpersonali di relazione, esistenziali, e sviluppate tramite un’interfaccia. Quale concetto basilare volete portare alle masse col vostro lavoro appena uscito?
Saul: Guarda, devo dire che non c’è un concetto di base razionalmente portato avanti. Il bello dei brani è che vengono fuori da soli e non so bene né come vengono, né da dove vengono. Arrivano. Certo ci sono temi che ricorrono nei testi ma anche in quel caso cerco di non dare una regia e lascio tutto un po’ al caso. Questi temi, come hai giustamente evidenziato, sono molto introspettivi, un po’ allucinanti e di certo non sono delle narrazioni lineari, piuttosto immagini, spaccati, elementi singoli che si collegano in un modo che poi ci piace. Sicuramente la relazione, il contatto, l’interpersonalità legati anche spesso al virtuale vs. reale (senza perciò preferire uno o l’altro) fanno parte del discorso, ma sempre in maniera spontanea, non c’è una pianificazione in questo.
Un amico pubblicitario ha scritto di noi che trattiamo spesso la “solitudine social anni 0”. Penso sia vero.

Houstones

Il piano e la voce, e tutto il gioco in fade out di “Perimeter II”, delizioso per altro (come la disperata prima parte del brano),  posto come sfumatura di coda: non vi è sembrato di aver gettato alle ortiche temi da espandere più che da accennare? 
Saul: Hai fatto centro: Quel brano l’ho scritto tipo 5-6 anni fa ed è in cantiere da allora. È molto probabile che lo svilupperemo ancora.

Il disco vive di molti chiaroscuri, bianco-nero, sole-notte, dolcezza-violenza, serietà-ridimensionamento, ruvido-liscio… contrasti vivi, lampanti all’ascolto, essi sono frutto di una progettualità fondante o scaturiscono dalla indole degli Houstones?
Saul: Ecco devo dire che ad un certo punto ci siamo resi conto che spesso i nostri brani andavano in questa direzione, momenti molto eterei e momenti molto pesanti accostati uno appresso all’altro. Quando ce ne siamo resi conto abbiamo capito che poteva essere “la nostra cosa” e allora abbiamo deciso di esagerarla e anche ora che stiamo lavorando a nuovi brani, continuiamo su questa strada.

Che legami avete con l’elettronica, inserita nella vostra musica? Oltre alle affascinanti armonie vocali, pensate di riservarle in futuro maggiore importanza?
Saul: Tutta la composizione è asservita al brano. Se ci piace, se serve, se ci suona, il genere o lo stile diventano relativi. Questa totale apertura a tutti i generi (la contemporaneità constata necessariamente il crollo dei generi, a meno della stasi) è del resto anche una lama a doppio taglio. Trovare un’identità musicale quando ci puoi mettere tutto è un gran casino. Inoltre la creatività necessita di paletti su cui fare perno. Anzi necessita di restrizioni per svilupparsi. Tutta questa libertà è un’inculata per chi fa musica.

Perché dopo “Sun” lasciate quel vuoto sonoro prima di trainarvi l’intera track “Perimeter”, ricomponendola dei tre frammenti? Gli si può conferire un valore a quel silenzio… qualcosa come l’inno di Nutopia di  John Lennon su “Mind Games”?
Saul: Eh, beh, “Mind Games” è tipo nella mia top ten dei brani intergalattici. Però, no; il silenzio dopo Sun è perché abbiamo fatto una cosa veramente ma veramente vintage, ovvero abbiamo messo la ghost track, ovvero il brano “Perimeter” tutto collegato.

A proposito del documentario di Davide Fois, come vi siete rapportati con lui e con la telecamera? L’essere ripresi, ‘spiati’, conversare a ruota libera in un contesto poco naturale vi ha creato problemi o al contrario trasmesso maggiore comunicativa? Il documentario uscirà insieme ai formati audio?
Saul: Davide è un professionista raro. Era alla sua prima esperienza col documentario e quando è arrivato ci ha detto “io sparisco”, ed è sparito. Quando la camera girava lui diventava la camera, per noi non c’era più. Solo durante l’intervista ha interagito con me, ma è comunque riuscito a montare una narrazione lineare omettendo le domande.

12- Un episodio divertente nato durante le registrazioni/riprese ed uno più toccante?
Saul: Beh, abbiamo fatto un ritiro musicale in alta montagna, si vede nel documentario “Supercella” e per arrivarci abbiamo dovuto arrampicarci su una cazzo di montagna sotto una pioggia torrenziale con strumenti e telecamera, bestemmiando ad ogni passo perché io sono di Milano e Davide di Brescia, ‘Salite? No, grazie!’.
Joel ovviamente era già in cima appena partiti e Eve è andata su in elicottero.

Quanto tempo e quanto sacrificio ci sono voluti per portare a termine il progetto musicale e filmico?
Saul: Noi lavoriamo a ciclo continuo. Se ci fermiamo è la morte. Quindi finito il disco vecchio eravamo già al lavoro su Perimeter. Circa tre anni, come i Nin. Sacrificio non molto, cioè costa un sacco di fatica e anche di soldi però è come cristo che si immola per l’umanità; alla fine lo fai con piacere.

La paternità dei testi a chi appartiene? Saranno esposti nei formati vinile, CD o digitale?
I testi li scrive Saul, ma solo perché gli altri non ne hanno ancora proposti. Siamo tutti autori dei brani. Li pubblicheremo nell’edizione in vinile.

Mi pare che l’album sia quasi un concept dove regna non tanto la disillusione, quanto invece il lirismo unito ad una presa di coscienza interessante, matura, da cui scaturisce un atteggiamento umanizzante e a tratti minimizzante di alcuni temi, ne evade l’attitudine a smorzare in leggerezza.
Mi pare una lettura bellissima. Grazie.

Ho letto invece da qualche parte che i vostri sogetti riguardano, tra i vari, anche questo: “jeans anni ’90 e solitudine social anni ’00”… considerazioni a ruota libera su ciò?
Sì, siamo fottutamente anni ’90 e francamente non capisco il perché. Cioè, sì, io sono cresciuto con quelle cose, ma in realtà più con i Beatles e con i Nofx. Boh..

L’artwork di copertina espone un’opera bellissima di cui essere orgogliosi. Siete voi tre in aura pre-pasquale…
Eh, l’artwork è frutto della nostra collaborazione con il fotografo lettone Artur Strupka, che ci ha fotografato in queste pose fantastiche. Da un po’ volevo lavorare con le coperte termiche perché trovo sia parte di un’estetica molto contemporanea legata ovviamente alle migrazioni. C’è un silenzio assordante nella copertina ed è sicuramente qualcosa che parla degli Houstones. Poi mettici dentro tutta l’estetica di Guantanamo e i vari incappucciamenti e poi ad un erto punto Joel fa “Io ho delle palme in macchina”. E così abbiamo creato un bellissimo cortocircuito tra tragedia e anni ’80. Guantanamo e Grace Jones.

Contate di esibirvi lungo tutta la penisola e in tutta Europa? Dove vi piacerebbe suonare; calcare i palchi di alcune città preferite e perché?
Noi suoniamo ovunque ci facciano suonare. Il mio sogno nel cassetto è suonare all’ ‘Ypsigrock’, in Sicilia, il miglior festival a cui sia stato; poi, li’ a due passi dal palco, fanno delle cozze assurde.

Vi saluto e vi lascio con un ultimo pensierino da dedicare al mondo webzine… Grazie Houstones per la chiacchierata molto informativa e divertente… 
Le webzine sono come le band. Non sai perché, ma sono belle.

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