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Ken Vandermark & Terrie Ex – Scaffolding

2019 - Terp Records
free jazz / impro

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Tracklist

1. Fixed Length Pelican
2. New Paper
3. Paid By The Kilometer
4. Attic Group
5. All The Numbers Across A Danish Car
6. Second Hand Diary
7. Instant Extant
8. Herring
9. Another Good Idea
10. This Is Not Han’s Pipe


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Io non so se li avete incontrati quelli che dicono che “il jazz non lo capiscono”, ma poi, non so se per posa o per altro, se ne tornano a casa e si divertono ad ascoltare Sunn O))), Deathprod, La Quiete, Dead C, e compagnia bella. Forse perché a volte il radicalismo del jazz è veramente troppo radicale nella sua furia in direzione contraria a se stesso? Forse perché non piace proprio? Forse perché non c’è niente da capire?

Secondo me l’ostacolo è tutto in quest’ultima domanda, la cui implicita risposta sembra essere affermativa. Immaginatevi la scena: uno sale sul palco con il suo strumento e basta (un sax o una chitarra) e inizia senza tanti fronzoli a suonare ininterrottamente per più o meno un’ora. Ecco, questo era “quello che aveva da dire”, che sia improvvisato o meno, ed esclusivamente questo è ciò che rimane dall’ascolto, per cui la dimensione live diventa, a mio avviso, essenziale nel jazz. Sì, chiaro, poi ci sono Peter Evans, Jon Hassell, i post-milesdavisiani che negli studi pianificano opere altamente strutturate, dettagliate e complesse, ma gran parte del nocciolo free, è ancora il live.

Tra i portabandiera di questa tradizione artigianale troviamo il sassofonista di Chicago Ken Vandermark (che di collaborazioni ne ha portate avanti parecchie assieme a Nate Wooley, Paal-Nilssen Love, the Ex, ecc.) che in questo disco “duetta” con il chitarrista punk Terrie Ex. Un po’ come la collaborazione tra John Butcher e Andy Moor, qui ci troviamo su dimensioni parallele, perché da una parte il free jazz e dall’altra il punk, si trovano molti punti in comune. Intanto l’aspetto timbrico: tutti e due i personaggi mostrano ognuno le (im)possibilità dello strumento, quelle da cui sarà impossibile staccarsi, quelle che non saranno “camuffabili” con espedienti di studio (i tasti del sax si sentiranno, i colpi del plettro sulla corda più bassa della chitarra si sentiranno, per esempio); non ci saranno molte linee guida, a meno che non ci sia quella famosa regola che prevede che non ci siano regole (ma anche qui sarebbe veramente semplicistico dire che il free è semplicemente “assoluto”, sciolto da qualsivoglia riferimento, perché come insegna uno dei più radicali improvvisatori, Broetzmann, non c’è niente di più difficile del suonare free jazz).

Si noti il paradosso di tutto questo ricordando che, nonostante la critica, il pubblico, i colleghi musicisti definiscano “free” la categoria musicale di Broetzmann, lui la rifiuta in toto non credendo alla libertà radicale, quanto piuttosto all’autonomia improvvisativa. Come si vede, è tutto un problema di definizione, da cui però traspare una certa filosofia e, soprattutto, una certa pratica di condivisione della musica. Per cui, ciò che succede all’interno di questo disco collaborativo non può essere classificato.
In questa raccolta di tracce, può accadere di scontrarsi contro molti generi: se del jazz troviamo l’idea del free, di rimbalzo si trovano il noise, la musique concrète, l’ambient, la performance, che è poi alla base di tutto il progetto come creatura live. Per cui, sì, ci potranno essere richiami agli esperimenti di Pitsiokos, o alle estasi di Jac Berrocal, ma si potranno trovare i riferimenti di Jurgen Eckloff, Mette Rasmussen, Robert Lippok o addirittura Massimo Toniutti, come nel caso di New Paper o Attic Group. Oppure si pensi alla shostakovichiana Paid by the Kilometer, o alla quasi-silente Second Hand Diary (dove l’ombra di Nate Wooley copre le varie dinamiche del pezzo).

Questa collaborazione va esclusivamente vissuta più che ascoltata, analizzata e definita, poiché la parabola che compie non è esclusivamente discendente o ascendente. Può essere presa in doppio senso, così come è doppia una partita di tennis, o come è doppio il senso di molte barzellette.

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