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“Mer De Noms”, nella cattedrale sommersa dei nomi

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Prezzo consigliato al pubblico L.19.900

Questo avviso stampato su un bollino nero campeggiava sul fronte della mia copia di “Mer De Noms”, comprata appena dopo essere caduto nella trappola di “Lateralus” dei Tool. Ero giovane e prima di ciò incosciente dell’esistenza di tanta bellezza. Tanto sentimento prorompente. Tornai al negozio di dischi e la stessa commessa che mi spinse sotto al naso il terzo album della formazione di Maynard James Keenan fece lo stesso con il primo degli A Perfect Circle “Canta lui,” -mi disse – “Ma è tutt’altra cosa.”

Mi fidai ed estratta la banconota da 20.000 lire, con le restanti 100 lire ed un disco nuovo di zecca tornai a casa. Oggi quel bollino non c’è più, ho dovuto cambiare il fronte del jewel case perché, seppur io abbia estrema cura dei miei dischi, gli imprevisti e il tempo spesso non si possono fermare. Mi portavo “Mer De Noms” ovunque ed era sempre nel mio lettore CD portatile, nei miei lunghi giri a piedi o in bici. Avevo quindici anni, e nella mia mente si agitava di tutto, dalla rabbia adolescenziale ad altre più oscure sensazioni, e tutte quante erano racchiuse in quel tondo di plastica, che faceva su e giù dal vano walkman, e mi faceva viaggiare in posti che si trovavano solo dentro di me. Solo lì. Era tutto misterioso, scoprivo solo in quel momento chi erano gli altri componenti della band, mi infatuavo di Paz Lenchantin, mi ricordavo di aver letto il nome di Billy Howerdel nei credits del booklet di “Live Era” dei Guns’n Roses – incomprensibilmente regalatomi da mio padre qualche anno prima nonostante fosse conscio della mia antipatia per Axl Rose e soci – e poi c’erano Troy Van Leeuwen (che non riuscivo proprio a ricollegare a nulla) e Josh Freese, che diavolo, ma su The Hollow no, c’era Tim Alexander, e lui sapevo già da dove arrivasse.

Era tutto doloroso, dolce, in espansione, misterioso. C’era il libretto ridotto all’essenziale, il codice per me indecifrabile, e poi tutti quei nomi, uno dopo l’altro, ognuno con le sue storie pronte ad essere raccontate. Anche i riferimenti biblici ivi racchiusi mi confondevano, perché sapevo che non c’era davvero un posto per Dio in musica come questa, eppure rientrava, magari in malo modo, come su Judith, col video visto su MTV (altra cosa incredibile, per una band di MJK, ma questa non è la sua band, è di Billy), girato da Fincher, chicca nella chicca. E poi c’era Magdalena, e questo è un appunto dolente. Ho legato questo pezzo a persone che sono inevitabilmente scomparse dalla mia vita, eppure non posso smettere ancora oggi di ascoltarla, decisamente no, pur soffrendone. Poi ci sono interviste sparse su giornali di settore, una in particolare in cui scopro che 3 Libras è nata anche grazie ai consigli dati al telefono dall’amico Chino Moreno. Che momento intenso per la musica alternativa, a cavallo di anni in cui il Maynard e lui si spartivano il microfono sull’album migliore dei Deftones. Assurdo. E c’è la scoperta di lati interiori femminei, che passano dal cantante a me, in una scarica emotiva, morbidamente elettrica, muscolarmente pop eppure così delicata. Un “viaggio allucinante” nei recessi del mio stesso animo. I giri si allungavano fino a ripetere l’ascolto una, due, cinque volte accompagnato dalle spirali ellittiche di chitarre ed archi, e voci e ritmiche e lacrime.

Senza che me ne rendessi conto sono cresciuto assieme a “Mer De Noms”, e lui è cresciuto con me, ascolto dopo ascolto, avvolti nelle voluttà del cerchio perfetto. Non ho ancora smesso di scoprire stanze nascoste nella cattedrale dei nomi, e credo sarà così per i prossimi diciannove anni.

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