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Black Mountain – Destroyer

2019 - Jagjaguwar
psych rock

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Tracklist

1. Future Shade
2. Horns Arising
3. Closer To The Edge
4. High Rise
5. Pretty Little Lazies
6. Boogie Lover
7. Licensed To Drive
8. FD’72


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Il viaggio inteso come ricerca di emozioni forti. Il brivido di eccitazione che segue l’inattesa riscoperta di un’epoca lontana della propria vita – o meglio, di sensazioni tradizionalmente legate a fasi ben precise nell’esistenza di una persona. Sono essenzialmente questi i due concetti alla base delle otto tracce di “Destroyer”, quinta fatica in studio a firma Black Mountain.

Un album che arriva un paio di anni dopo un evento di grande importanza per il cantante e chitarrista della band canadese, il cinquantenne Stephen McBean: il superamento dell’esame di guida. Essere arrivato a un traguardo del genere in un’età tutto sommato abbastanza avanzata – non è un vecchio bacucco, ma neanche un ragazzino – deve aver avuto un effetto a dir poco stimolante e ringiovanente sulla creatività del barbutissimo artista di Vancouver.

Avvalendosi del prezioso contributo di nuovi membri (Rachel Fannan e Adam Bulgasem) e di qualche ospite di lusso (l’ex batterista dei Flaming Lips, Kliph Scurlock, e Kid Millions degli Oneida), il neopatentato McBean ci fa salire a bordo della sua Dodge Destroyer – sì, il titolo del disco è un omaggio a una muscle car fuori produzione dal 1985 – per farci fare un giro lungo i viali della memoria di un’adolescenza riassaporata quasi per caso.

Può la conquista di un semplice pezzo di carta plastificato essere così potente da evocare in maniera nitida ricordi del passato, neanche fosse la madeleine imbevuta nel tè resa celebre da Marcel Proust? A quanto pare sì. In “Destroyer”, tuttavia, più che andare “Alla ricerca del tempo perduto” si parte alla volta di universi inesplorati, mondi sconosciuti e realtà parallele.

L’hard rock ibrido, progressivo e psichedelico dei Black Mountain ha infatti più di qualche tratto in comune con la fantascienza e questo album, a partire dalla copertina, mi fa venire in mente i bei vecchi romanzi della collana Urania. I linguaggi sono differenti, ma l’approccio è più o meno simile: in entrambi i casi si finisce per avere tra le mani uno strambo collage di generi e stili che, pescando tra riferimenti colti e non, si trasforma in un mirabolante esempio di coesione dai tratti pulp.

Per cui non meravigliatevi se, ascoltando questo lavoro, vi sembrerà di cogliere, sparse qua e là, tracce di Gong e Hawkwind, Black Sabbath e Led Zeppelin, John Carpenter e Tangerine Dream. Sommerso sotto quintali di sintetizzatori analogici e acidissime chitarre fuzz, c’è tutto questo e molto altro di più.

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