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“Post”: decidere di farsi salvare trasportati dall’aurora boreale

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La cosa più bella della musica degli anni 90 è che ci ha aperto gli occhi: ci ha fatto capire che potevamo ascoltare praticamente tutto. I dogmi stilistici degli anni 80 si frantumarono tra feedback, distorsioni e campionamenti, l’elettronica poteva venire in soccorso dell’elettrica e viceversa. Björk Guðmundsdóttir è stata tra le artefici di questa evoluzione.

Quando uscì “Post” nel 1995 uscivo con una ragazza, era una metallara e voleva assolutamente che comprassi il cd di “Cowboys From Hell” dei Pantera che ci mancava. Io avevo il budget per un solo cd. Il problema nell’accontentare la tipa fu che era appena uscito “Post”, non avevo ancora sentito neanche Army of Me, ma la sola copertina mi attirava come una roccia assolata attira una lucertola, perché era questione di sensibilità, di emotività, elemento di cui noi timidi eravamo pieni. Il vecchio hard rock e l’heavy metal come li avevamo conosciuti erano morti, questo si rifletteva nelle delusioni dei molti orfani rockettari che vedevano le scene musicali unicamente come sollazzo e divertimento e non capivano che la bomba alternativa era ormai detonata e aveva preso con se milioni di ragazzi che avevano bisogno di quella ricercatezza nei suoni, quei ragazzi che non andavano in giro in gruppo gridando ed emulando in divisa il dio metallaro di loro scelta, l’emulazione era poca cosa, era, per noi, noiosa, perché imponeva una maschera, diceva di non essere se stessi perché tanto eravamo troppo deboli e quindi bisognosi di un riferimento figo per essere qualcuno.

Per esempio: un giorno, in quel periodo, incrociai quattro metallari molto più grandi di me, erano tutti borchiati, incazzati neri, con i capelli lunghissimi e camminavano come se avessero l’orchite. Io avevo su un giubbotto blu di stoffa che mi aveva regalato mia mamma, dei jeans dritti e stirati e le scarpe da tennis. Uno di loro si voltò verso di me mi urlò in faccia: “Ahhhrrghh!! Chi siamo noi??? Gli Skid Row!!!!” e se ne andò con la sua camminata alla Sebastian Bach nel video di Slave to the Grind. Quello che non sapeva quel tipo era che anch’io ascoltavo gli Skid Row(!!!), tra le altre cose, ma non dovevo immaginarmi sul palco con loro mentre giravo per le vie del centro camminando come uno sfigato. Lo incontrai di nuovo molti anni dopo, attorno ai trent’anni. Era sovrappeso, con pochi capelli e con lo sguardo triste, mi fece molta tenerezza. Perciò gli parlai e gli raccontai di quell’episodio, lui disse di essere stato stupido e diventammo amici. Era come se le mie parole fossero un balsamo per lui. Perché non lo cagava più nessuno. Era rimasto aggrappato ad un’idea povera, superficiale, datata. Non aveva mai guardato alla musica come qualcosa che ti nutre l’anima, ti fa affrontare le difficoltà, ti aiuta a diventare una persona migliore, la vedeva semplicemente come uno svago, un mezzo, un tassello necessario durante le serate in giro con gli amici. Non aveva torto, solo che la sua visione era chiusa, limitata. Allora gli parlai di musica, di quello che raccontavano alcune canzoni, del mondo che creavano e del messaggio che davano. Ne fu entusiasta, lo vidi elettrizzato e impaziente di andare a scoprire quello che aveva sottovalutato. Gli prestai molti cd, mi fu grato e, cosa alquanto rara, me li restituì tutti con la massima cura. La redenzione del metallaro. Beccatevi questa.

Ora, questo è un aneddoto per dire che quella visione così spessa, dura e tamarra non ci piaceva. Volevamo essere noi stessi, volevamo purezza, arte, autenticità in ciò che ascoltavamo, avevamo bisogno di essere compresi e il rock alternativo sdoganò una moltitudine di suoni che toccavano molte più corde emotive rispetto al rock classico. Non fu solo il grunge, che portò sotto i riflettori l’anti rock star e il poter salire sul palco con i primi vestiti che trovavi, (anche questo divenne poi una moda, certo, ma se una tendenza spinge verso qualcosa di buono, genuino e inalterato, ben venga, no?) ma erano piccoli mondi, colori, contaminazioni, generi bastardissimi come il folk/rap del primo Beck nonché il rap-metal, due generi che si incontravano celebrandosi a vicenda senza prendersi troppo sul serio. Guardate l’esplosione dei Red Hot Chili Peppers e il successivo, patetico tentativo degli Extreme di corrergli dietro disperati pensando che l’attitudine poteva essere una cosa studiata a tavolino, mi venisse un colpo se non era quello che stava accadendo alle rock star milionarie, tutte primedonne con il cervello in salamoia tra macchine, puttane e party.

E, insomma, tornando alla mia ragazza, alla fine entrai nel negozio e, per i motivi sopracitati, comprai “Post”, lei mi insultò e pochi giorni dopo ci lasciammo. Mi ricordo che mi sentii sollevato. La mia attenzione si rivolse ad un’altra ragazza, un elfo arrivato dall’Islanda, una figura minuta che ti travolge su di un carro armato futurista e distopico. Un testo micidiale e granitico, rivolto a chi si adagia sugli allori, a chi pensa solo a se stesso, a chi non guarda alla bellezza, “Se ti lamenterai ancora una volta incontrerai un esercito di me”. Davanti ad una minaccia del genere pronunciata da Björk anche l’ultimo degli stronzi si mette in riga. Per arrivare a Hyperballad che ti teletrasporta insieme alla piccola e geniale islandese in cima alla montagna a guardarla mentre getta oggetti per sentire il rumore che fanno schiantandosi al suolo, e i pensieri che ne derivano sono sconcertanti, il tutto mentre solo lei è sveglia e il resto del mondo dorme, un preludio, una premessa del trip hop, che non aveva ancora un nome, anche se la scena di Bristol era già attiva.

E The Modern Things, una visione ultra-fantascientifica e utopica o meglio, ancora una volta distopica, termine che userei per definire l’intero album, in cui le macchine e la tecnologia sono sempre esistite, hanno solo aspettato il loro momento per uscire allo scoperto e ora è il loro momento. Pura poesia. Ma la Guðmundsdóttir non è solo questo e ce lo dimostra con It’s oh so Quiet, uno swing in pieno stile broadway-retrò, ma, quanto ci è rimasta in testa questa canzone? Lo so, oggi è più facile sentirne una cover in una pubblicità degli yogurt, ma è segno che It’s oh so Quiet è entrata nell’immaginario collettivo, è un classico. Ma poi ci riporta sul carro armato con Enjoy e la sua collaborazione con il buon Tricky.

E Isobel? Come faccio a descrivere a parole la bellezza di Isobel? Ninfa promessa a se stessa. Il fatto è che “Post” è l’album più importante della Björk solista e adulta, possiamo dire che sia il suo secondo album, se non contiamo quello del 1977 ovviamente, ed è quello del passaggio, unico e potentissimo, dall’utilizzo delle percussioni di “Debut” all’elettronica/sinfonica di “Homogenic”, “Post” sta nel mezzo, nel punto migliore, quello intramontabile e più atemporale che si poteva trovare, il racconto di un’anima alla ricerca della purezza senza lasciare indietro niente del mondo occidentale, ma facendone bagaglio culturale inestimabile, è una riflessione sul futuro che ci attende e ne trae poesia.

Post” è lasciarsi ispirare dalle aurore boreali, guardarsi dentro, prendere le distanze dai pensieri di superficie, “Post” è sapere di avere sbagliato, è avere tenerezza per la propria specie,“Post” è decidere di lasciarsi salvare.

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