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Back In Time

Back In Time: EPHEL DUATH – The Painter’s Palette (2003)

Questi cazzo di jazzisti…” fu la frase con cui il mio ex-cantante della mia (per fortuna) ex-band thrash metal tentò di sferzarmi in una fredda sera del 2005 (o 2004?) durante l’esibizione degli Psychofagist al solito “Metal Fest” del centro sociale della mia lasca cittadina del nebbioso Nord. Lo fece perché credeva di darmi noia, rendendomi la pariglia perché era da un bel pezzo che cercavo di fargli scoprire qualcosa che andasse un po’ più al di là degli Hypocrisy e dei primi tre album degli In Flames, nella fattispecie qualcosa che potesse ringalluzzire la sua idea statica di metal. C’era solo un album che avrebbe potuto farlo e si chiamava “The Painter’s Palette”.

Come sempre, e come tutte le cose belle e che lasciano il segno, era entrato nella mia vita per puro caso, grazie ad una recensione (inizia sempre così) che incuriosì a tal punto il giovane me, già partito per la tangente con 1/100 del corpus di John Zorn e con nel cuore “Focus” dei Cynic, convinto che qualcosa stesse muovendosi e che il motore fossero i Dillinger Escape Plan su tutti. Gli Ephel Duath però erano qualcos’altro. Punto primo: quel nome rievocava in me l’amore tolkeniano, e già solo per questo motivo erano destinati a diventare una delle mie band preferite. Punto secondo: avete sentito The Passage (Pearl Grey)? Non credo esista un’opener migliore per un album estremo, seconda solo a Panasonic Youth e poi nemmeno tanto.

Quello che Davide Tiso è riuscito a fare con questo disco è creare un mondo dalle sfaccettature infinite, una realtà che ad ogni ascolto rivela qualcosa di nascosto e nuovo, che guardava ad un futuro che in Italia era appannaggio di pochi, ma me ne sarei reso conto ben dopo il 2003, con la scoperta degli Zu. Sembra davvero Tolkien quando descrive la sua Arda, ci sono momenti di lucentezza e fulgore e abissi senza fine, c’è Valinor sì, ma anche Mordor, e il tutto è imbevuto di jazz, complice una line up perfetta, e su tutti spiccano le due voci, quella mostruosa e tanto hardcore che pare uscita dai meandri della Three One G di Luciano Lorusso George e la cristallizzazione poetica degli sviluppi vocali di Davide Tolomei. Mi rapivano i cambi repentini di ambience, i dedali art delle chitarre graffianti e inferocite che un attimo dopo potevano trovare la propria origine nei fossili del Miles elettrico (complice il dualismo con la tromba di Maurizio Scomparin) e quella sezione ritmica che spesso si inabissava tra le fronde di una jungle omicidia al limite dell’umana comprensione come se fosse la naturale evoluzione del sound, moderno nel suo pescare da mondi distanti e ormai divenuti Storia.

Io prima d’allora una cosa così complessa non l’avevo mai sentita. Complessa con l’intenzione d’esserlo senza fartelo pesare. Mai mi ero addentrato in situazioni notturne che aleggiano su Praha (Ancient Gold) in un ambito “metal”, e da lì il mio conseguente amore per i Notturni di Haden – perché ho fatto la strada a ritroso – o a desiderare che tempi dispari post-hc si intagliassero uno spazio nel mondo industriale che divenne la mia casa. C’era e c’è ancora tutto qui dentro, quello di cui avevo bisogno, attimi di cogito ergo sum jazzistico e appena dopo denti che digrignano e volontà di violenza e dolore, testi che mi parevano usciti dall’angolo più oscuro del black metal spesso sottolineati da giri di basso ultra funk, esasperazioni ascendenti e tracolli elettronici come quelli di The Picture (Bordeaux) che bevevo come un assetato dopo un’intera stagione nel deserto.

A lungo ancora ho cercato qualcosa che pareggiasse i conti con questo album, ma qui, dalle nostre parti, nessuno è stato in grado di ergersi oltre la grandezza di questi Ephel Duath. Continuo a metterlo su, a suonarne ogni singolo brano senza riuscire a distaccarmene. Poi, diciamocelo, trovatela voi una band capace di reinventarsi di disco in disco, che possa piacere o meno non è roba da tutti.

Alla fine non riuscii a far capire al mio ex-cantante quanto fosse importante ascoltare “The Painter’s Palette”. Non che oggi la cosa m’importi poi più di tanto – e nemmeno allora se è per questo – l’importante è che ci fosse e che fosse l’opera immensa che continua ad essere, con tutti i colori al loro posto ed il nero a divorarsi tutto, anche sedici anni più tardi. Io sono inevitabilmente invecchiato, lui no.

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