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Back In Time

“Slow, Deep And Hard” dei Type O Negative, tra putridume, indecenza e genio

Fa uno strano effetto pensare al fatto che “Slow, Deep And Hard”, l’album che nel 1991 introdusse il mondo al malsano verbo dei Type O Negative, sia stato pubblicato dalla Roadrunner – la stessa casa discografica che, esattamente dieci anni dopo, ci avrebbe fatto scoprire i ben più mansueti Nickelback e la loro How You Remind Me. Da un punto di vista artistico, è come passare dalle stelle alle stalle. Per quanto riguarda i guadagni, d’altro canto, diciamo solo che, molto probabilmente, in almeno una dozzina di lussuose dimore sulle colline di Beverly Hills vi abita qualche baldo dirigente arricchitosi proprio grazie al buon Chad Kroeger e alla sua hit per cuori spezzati.

Una canzone che parla di un amore finito male, come quasi tutte quelle incluse nell’album con cui il gigantesco Peter Steele inaugurò la sua vita post-Carnivore. Un argomento fin troppo abusato? Dipende dal modo in cui lo si tratta. I Nickelback, dall’alto della loro insipienza, seppero tirarci fuori un singolo tanto innocuo quanto fortunato: un testo semplice e pieno di stereotipi, un ritornello orecchiabile e via, verso i vertici delle classifiche. Meno lungimiranti si rivelarono essere i Type O Negative, che pure aspiravano (e non poco) alla fama e al vil denaro. D’altronde, se Steele non avesse voluto mollare il suo lavoro come netturbino nei parchi di Brooklyn – al quale era molto affezionato, tra l’altro – si sarebbe potuto benissimo “accontentare” degli spietati Carnivore, ovvero l’essenza stessa dell’anti radio-friendly: andate a sentire la “vomitevole” introduzione di “Retaliation” (1987) per farvi un’idea.

Eppure, il suo primo tentativo di abbordaggio a sonorità leggermente più accessibili fu un discreto flop a livello commerciale. E, a dir la verità, le premesse affinché le cose non andassero come immaginato c’erano tutte già in partenza: con “Slow, Deep And Hard”, infatti, l’esordiente quartetto newyorchese decise di esplorare il lato oscuro dell’amore realizzando un concept assolutamente malato e ostico. Non era abbastanza, però: per rendere la proposta ancora più indigeribile, i nostri strutturarono i pezzi in interminabili suite suddivise in capitoli.

Ognuno di essi rappresenta una sorta di pagina tratta dal diario di un derelitto uscito fuori di testa. Un uomo completamente pazzo che, sconvolto dai ripetuti tradimenti della ex ragazza, si libera delle proprie frustrazioni urlando ogni tipo di oscenità e insulti. Tutto ciò per la durata record di cinquantotto minuti e trentuno secondi. Per anni i contenuti decisamente sopra le righe di “Slow, Deep And Hard” sono stati al centro di accesissime critiche. A costo di passare per bacchettone, è effettivamente assai difficile giustificare alcune delle sparate peggiori qui incluse; ma se i Type O Negative riuscirono a sopravvivere a un tale vortice di misoginia, razzismo e violenza per poi diventare uno dei più grandi gruppi metal degli anni Novanta, ci saranno pure dei buoni motivi.

E quei buoni motivi sono essenzialmente tre: genio, sregolatezza e tanto, tanto black humor. Questo disco raggiunge picchi di cinismo, pessimismo e autocommiserazione – se non proprio profondo odio per se stessi – forse mai raggiunti in seguito da nessun altro artista. Ogni cosa sembra essere messa al posto giusto per farci sentire a disagio: appena sfuma l’irritantissimo fischio che apre Unsuccessfully Coping with the Natural Beauty of Infidelity fa la sua comparsa un’assordante chitarra elettrica in feedback, da cui prende il via un’entusiasmante galoppata hardcore intrisa di depressione. Do you believe in forever?/I don’t even believe in tomorrow/The only things that last forever/Are memories and sorrow: quanta tristezza in appena quattro versi!

Peter Steele affonda il ditone nella piaga purulenta regalandoci una delle sue interpretazioni più potenti e viscerali di sempre, culminante in un avvincente duello di offese rivolte alla compagna fedifraga tra lui e gli altri membri della band (Slut! Whore! Cunt!). Ai tempi di “Slow, Deep And Hard”, il suo inconfondibile timbro baritonale era ancora in fase di assemblaggio; buona parte dei brani viene urlata più che cantata, seguendo quindi gli umori e i deliri del protagonista dell’opera.

La voce che sfodera in quel gioiello di ambiguità che risponde al titolo di Der Untermensch è rauca, sbraitante e furiosa. L’ideale per calarsi nei panni di un insopportabile proto-leghista che sputa veleno contro chi campa con il sussidio – nient’altro che uno “spreco di vita”. I toni si fanno persino più astiosi nella marcissima Xero Tolerance: quasi otto minuti di puro terrore doom metal. Steele sogna di vendicarsi della ex facendola a pezzi; il testo è una cronaca dettagliata degli eventi, con tanto di rumori di sottofondo (la motosega in apertura, la pala che scava la fossa in chiusura) e presentazione delle diverse fasi del delitto: dall’idea (I’ll kill you tonight!) all’azione (And now, you die!).

L’unica speranza che abbiamo per credere che Steele non considerasse realmente una buona soluzione ai problemi di cuore quello che oggi in Italia viene definito “femminicidio” resta legata all’interpretazione di alcuni passaggi di questo brano: sono rabbia e odio a mettergli in bocca certe parole, a trasformarlo in qualcosa che è diverso da lui – il semplice personaggio di un concept album, per l’appunto (Anger burning me/Anger turning me/Into someone I don’t know).

Qual era, allora, la vera considerazione di Steele per le donne? Forse erano angeli da amare fino alla morte; o forse erano solo dei demoni, dotati di una forza simile a quella del fuoco (Is there no difference between women and fire?/One burns the spirit, the other the flesh, da Prelude To Agony). È impossibile trarre conclusioni basandosi semplicemente sulle canzoni di “Slow, Deep And Hard”, probabilmente il più controverso e spiazzante capolavoro mai realizzato nella storia dell’heavy metal. Non giudicate questo disco per gli evidenti difetti – le tematiche dei testi, naturalmente – ma per gli innumerevoli pregi. Dai suoni incredibilmente saturi alla complessità delle strutture dei pezzi, passando per la creazione rivoluzionaria di un nuovo linguaggio musicale fondato su influenze hardcore, thrash, doom e hard rock: sotto un impenetrabile cumulo di putridume e indecenza brilla la luce di un enorme genio che, purtroppo, si è spento troppo presto.

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